Ci sono squadre che vincono perché sono più forti, altre che perdono perché sono più
deboli. E poi c’è il Cagliari, che da anni ha elaborato una terza via: rendere ogni vittoria
indistinguibile da una sconfitta. Contro la Virtus Entella, una modesta formazione di Serie
C, si sarebbe potuto offrire una serata serena ai propri tifosi: due gol, una gestione
ordinata, un applauso al giovane che debutta, e tutti a casa. Sarebbe stato troppo facile. E
infatti non è accaduto.
Il problema del Cagliari non è l’avversario, è se stesso. La partita con l’Entella ne è stata
l’ennesima dimostrazione: un autogol da manuale, un rigore sbagliato con l’aria di chi sta
facendo un piacere agli avversari, e infine la sostituzione del marcatore — Piccoli — dopo
il gol, come se fosse un reato avere un attaccante che segna. Dicono che la società non
sappia ancora se cederlo: intanto lo si abitua a sparire dal campo, così il pubblico
potrebbe farci l’abitudine. Nel frattempo, gli avversari ringraziano e pareggiano.
Il tifoso, che di tutto ha imparato a diffidare, riconosce la scena: non è incapacità, è un
marchio di fabbrica. Il Cagliari, se non si complica la vita, si annoia. C’è chi colleziona
francobolli, chi monete, e chi — come i rossoblù — colleziona autogol e rigori sbagliati.
Con ostinazione, con orgoglio persino.
Si dirà che la Coppa Italia non interessa a nessuno.
È vero, non interessa mai, fino al
giorno in cui ci si accorge che persino il decoro ha un prezzo. La Virtus Entella non doveva
essere un ostacolo, ma un esercizio: dimostrare che, pur cambiando uomini e rotazioni, la
superiorità resta. Invece il Cagliari ha trasformato la sera d’agosto in una lunga seduta
psicanalitica: ansie, complessi, paure, tutto in campo, tutto sotto gli occhi del pubblico.
Eppure, è proprio questa la forza (e la maledizione) del club: la capacità di non sembrare
mai all’altezza della propria categoria. Non è un problema tecnico, ma narrativo. Il Cagliari
non gioca a calcio: mette in scena ogni volta un racconto. La favola della rimonta, la
tragedia dell’autogol, la farsa dei rigori. Gli altri vincono o perdono: noi recitiamo.
Nel frattempo, la società osserva immobile. Manca un terzino, manca un centrale, manca
persino la certezza che ci sia qualcuno in grado di garantire la doppia cifra in campionato.
Ma non si interviene. Si aspetta, come se il tempo potesse da solo correggere i difetti.
È
un’illusione che si ripete a ogni sessione di mercato: il futuro sarà migliore, basta
pazientare.
Intanto il Cagliari passa il turno. Non ha perso, è vero. Ma a quale prezzo? La domanda
non è retorica: quanto può costare vivere costantemente in bilico tra figuraccia ed
espiazione, tra l’orgoglio di esserci e la vergogna di come ci si è arrivati? Forse poco, forse
tutto. Perché, alla fine, il calcio non è matematica: è racconto. E il racconto che il Cagliari
offre da anni è sempre lo stesso: una commedia che non fa ridere, una tragedia che non
commuove.
E allora sì, si va avanti. Ma con la certezza che ogni partita non sarà mai una vittoria,
bensì un compromesso. Il compromesso eterno fra ciò che il Cagliari potrebbe essere e
ciò che, ostinatamente, sceglie di restare. E la Virtus Entella esce dalla Coppa Italia a
testa alta.
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