C'è qualcosa di profondamente poetico in quello che è accaduto domenica sulle strade del
Friuli. Filippo Conca, ventiseienne di Lecco, ha vinto il Campionato Italiano indossando la
casacca dello Swatt Club - un nome che nel paddock del WorldTour suona quasi come
una beffa. Eppure quel ragazzo dagli occhi stanchi ha fatto quello che in tanti avevano
smesso di credere possibile: ha dimostrato che il talento autentico trova sempre la strada
per emergere.
"Ora tutti zitti", ha detto portandosi il dito alle labbra dopo aver battuto Alessandro Covi e
Thomas Pesenti. Un gesto carico di significato, una liberazione che sa di rivincita contro
un sistema che premia più il marketing che il merito.
Conca non è uno sconosciuto. Ha corso nel WorldTour con la Lotto Soudal, ha militato
nella Q36.5. Ma nell'ottobre scorso si è ritrovato senza squadra, come capita a tanti
quando le logiche del business prevalgono su quelle sportive. Undici giorni di gara in tutto
il 2025, contro i centocinquanta di chi ha la fortuna di militare nelle squadre che contano.
È la storia dell'ultimo degli isolati, di quei corridori che una volta popolavano le cronache
del Giro. Uomini soli al comando, che correvano con la fame negli occhi e la
determinazione di chi sa che ogni occasione potrebbe essere l'ultima.
La vittoria di Conca è uno specchio spietato del ciclismo contemporaneo.
Mentre le
squadre WorldTour investono milioni in tecnologia e staff, un ragazzo con due biciclette
regalate dal team manager riesce a battere tutti. "Non capisco perché uno con dei numeri
come i suoi sia fuori dal giro che conta", ha detto Beretta, commosso.
È la domanda che tutti si pongono ma nessuno vuole affrontare. Perché talenti come
Conca si ritrovano ai margini mentre altri, magari meno dotati ma meglio "vendibili",
occupano posti nelle squadre professionistiche? Il sistema ha perso di vista l'essenza di
questo sport: la capacità di superare i propri limiti attraverso sacrificio e determinazione.
"Sono stato in altura a Livigno e ho fatto una brutta caduta per colpa di una marmotta. Ma
non ho mollato", racconta Conca. In questa frase c'è tutta la differenza tra chi vive il
ciclismo come missione e chi lo considera solo lavoro. La marmotta è diventata simbolo di
una preparazione fatta di sacrifici silenziosi, di allenamenti solitari con Giacomo Nizzolo
sulle strade di casa.
Un ciclismo che sa di altri tempi, quando la grandezza si misurava sulla capacità di
soffrire, non sulla potenza del team che ti circonda.
"Se mi rendo conto che questa vittoria è un terremoto? Sì, sicuramente", ha detto il neo-
campione. E ha ragione. Quella maglia tricolore sulle spalle di un "isolato" è la prova che
qualcosa nel meccanismo perfetto del ciclismo moderno si è inceppato.
Non è nostalgia del passato, è consapevolezza che il ciclismo rischia di perdere la propria
anima se continua a privilegiare il business al talento, se continua a lasciare ai margini
corridori che potrebbero scrivere pagine memorabili.
Cosa succederà ora? Il procuratore Quinziato sa che tutto cambierà. Ma la vera vittoria è
già stata conquistata: aver dimostrato che il merito trova sempre la strada per emergere.
La storia di Conca dovrebbe essere un monito: quanti altri talenti si perdono per strada?
Quanti "isolati" stanno preparandosi in silenzio?
Quella domenica a Gorizia ha dimostrato che il ciclismo ha ancora un'anima. Un'anima
che pulsa nelle gambe di chi corre per passione, che trionfa quando meno te lo aspetti. È
l'anima di Filippo Conca, l'ultimo degli isolati, il primo di una nuova generazione che non si
accontenta di essere dimenticata dal sistema.
La maglia tricolore, quella domenica, ha ritrovato la sua dignità.
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