Italia, la lunga traversata. Dal 1966 al 2025: l’azzurro che sempre torna a vivere

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Nel nostro calcio, che vive più di memorie che di futuro, tutto torna. La scena che oggi si delinea davanti agli occhi stanchi degli appassionati sembra il riflesso, appena sbiadito, di un’altra epoca di crisi e di speranze, quella che l’Italia attraversò dopo il mondiale inglese del 1966. Allora, il disastro di Middlesbrough — l’infamia nordcoreana — scavò un cratere tecnico e morale che impose la rifondazione. E la rifondazione venne. Silenziosa, artigianale, paziente. Nacque il Club Italia, si cominciò a parlare di vivai, di scuola tecnica, di selezione federale. Un anno dopo la Corea, al timone della Nazionale arrivò Valcareggi, attorniato da uomini di pensiero e di campo. Due anni dopo si vinse l’Europeo, primo della storia azzurra. Quattro anni dopo si giunse a giocare la finale più iconica del Novecento, al cospetto del Brasile di Pelé.

Oggi, a distanza di sessant’anni quasi esatti, la storia sembra ricominciare da capo. Gli ultimi dieci anni hanno lasciato scorie amare. L’Italia del pallone, dal 2014 in poi, ha conosciuto la vergogna di due mondiali mancati e di un’irrilevanza crescente sul palcoscenico internazionale. Unica eccezione, luminosa ma isolata, la cavalcata dell’Europeo 2020 disputato nel 2021, quando un gruppo compatto e generoso, condotto da Roberto Mancini, si prese la gloria di Wembley e illuse il Paese di aver ritrovato se stesso. Ma fu un guizzo, non una rinascita. Al primo tornante successivo, la Nazionale crollò di nuovo nei playoff, estromessa da un’ordinata Macedonia.

Il problema, come allora, non è mai stato solo la panchina. Il problema è sempre l’officina. Da troppi anni l’Italia produce calciatori timidi, scolastici, timorosi di sbagliare. Ragazzi che imparano prima la diagonale che il dribbling, prima il pressing che l’impertinenza del gesto tecnico. Così, mentre in Europa sbocciano i Bellingham e i Lamine Yamal, noi ci consoliamo con i mestieranti. Non abbiamo perso la scuola difensiva — quella resta, per cultura e mestiere — ma abbiamo sacrificato la fantasia e l’estro sull’altare dell’ossessione tattica precoce.

Ora, come dopo il ‘66, il movimento invoca una rifondazione strutturale. Una saldatura stabile tra Federazione e vivai, dove il Club Italia non sia solo luogo di convocazioni, ma laboratorio di formazione continua. Un sistema che richiami il modello francese di Clairefontaine o quello tedesco del post-2000, che ha saputo rieducare un’intera generazione.

Ecco dunque l’idea, oggi allo studio, di affidare la rinascita azzurra a un gruppo di uomini che l’azzurro lo hanno portato addosso per anni: Gigi Buffon come regista politico e morale, Rino Gattuso come possibile commissario tecnico, Bonucci e Barzagli pronti a portare sul campo la pedagogia difensiva, Zambrotta come uomo di raccordo per i giovani. Non ex calciatori, ma ex combattenti. Non teorici, ma uomini che sanno cosa pesa una maglia azzurra addosso quando l’inno tace e il pallone rotola.

Sarà un’opera lunga, come tutte le opere vere. Non basterà un Europeo né una qualificazione per placare la sete antica del nostro popolo calcistico. Ma proprio perché l’Italia ha saputo più volte rialzarsi dopo il baratro — dal 1966, appunto, al 1982, e poi al 2006 — esiste ancora lo spazio per credere che il ciclo possa ripetersi.

Non per orgoglio, né per retorica. Ma perché, nel nostro calcio, l’azzurro non muore mai davvero: si inabissa, attende, riemerge. Sempre.