Ultima tappa albanese per un giro d’Italia che martedi, dopo il giorno di riposo, si riporta in terra
italica.
C’è una strada che si snoda tra le rocce di Valona, dove l’Albania si affaccia sull’Adriatico con la
schiena curva come un ciclista in salita. È lì che oggi il Giro ha incontrato la sua anima più vera:
quella che sa di fatica e di vento contrario, di ginocchia che tremano e orgoglio che spinge ancora
un colpo di pedale.
Sembrava una tappa per velocisti, sulla carta. Ma la carta, lo sanno anche i bambini, si straccia
appena incontra la realtà. E oggi la realtà era dura, fatta di 3129 metri di dislivello e una salita
finale prima della discesa tecnica e del rettilineo, che non perdona. Per sopravvivere serviva non
solo fiato, ma anche coraggio. E, forse, un po’ di destino.
La corsa è partita come un romanzo che non sa ancora di che genere sarà. Tentativi di fuga, uomini
in avanti che cercavano gloria nel silenzio di chilometri apparentemente inutili, ma che sono il
midollo del ciclismo. Hamilton, Tonelli, Germani, Tarling, Donovan: nomi che per un giorno hanno
provato a riscrivere le gerarchie. A loro modo, sono stati i cavalieri erranti di questa tappa, e il loro
assalto alla vetta — reale e simbolica — ha avuto tutta la nobiltà del sacrificio.
Poi è arrivata la capra. Sì, una capra, spaventata, forse arrabbiata, forse solo confusa. Ha sfidato
Dion Smith con la furia cieca della natura che non legge le classifiche. Gli è saltata addosso. Eppure
Smith è rimasto in sella, come si rimane in sella alla vita nei giorni peggiori: stringendo i denti,
contando più sul cuore che sulla tecnica. C’è chi ha visto lì un segno, un presagio. Forse era solo
una capra. Ma anche il destino, a volte, ha bisogno di un pretesto buffo per annunciare l’impresa.
Nel frattempo, là davanti, la fuga si sgretolava sotto il vento contrario, come una statua di sale che
implora un po’ di misericordia. Il gruppo stringeva i denti e le squadre dei velocisti — Lidl Trek,
Bora, e poi ancora — cucivano lentamente lo strappo. Pedersen osservava. Pedersen attendeva.
A 17,9 km dalla fine, il sipario calava sulla fuga: i battistrada si rialzavano. E allora il ciclismo, come
la vita, diventava ciò che è davvero: un conto alla rovescia verso l’ignoto, dove tutti sperano, pochi
osano e solo uno vince.
Nel finale, l’ordine diventava caos controllato: treni lanciati, gambe stremate, meccaniche che
tradivano, come nel caso di Bardet. Il vento contrario sembrava volersi opporre a ogni slancio,
come se la natura stessa volesse interrogare gli uomini sulla loro volontà di vincere.
Mads Pedersen, maglia ciclamino addosso e fame di maglia rosa nel cuore, ha atteso il momento.
Ai 500 metri ha scattato. Uno scatto che non è stato solo fisico, ma anche mentale, quasi mistico.
Un balzo nella storia, nella propria biografia da riscrivere con inchiostro rosa.
Ha tagliato il traguardo come chi sa che oggi il destino era il suo gregario più fedele. E ha vinto. In
volata. Con forza. Con cuore. Con quella rabbia dolce di chi sa che nel ciclismo nulla è dato, tutto si
conquista. Sempre. Ancora.
Oggi, a Valona, non ha vinto solo Pedersen. Ha vinto la fede cieca nella fatica, l’idea che il sacrificio
abbia senso anche quando non si vede il premio. Ha vinto chi si rialza dopo una foratura, chi
resiste al vento, chi sopravvive a una capra impazzita. Ha vinto il ciclismo, quello vero.
E domani? Domani è un altro giorno. E Roglic? Con soli 9” di svantaggio nella classifica generale, è
ancora li. In agguato.
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