Il Giro parte dal mare d’Albania, e già l’aria sa di novità. A Durazzo, antica porta d’ingresso
dell’Adriatico, si alza il sipario sul 108° atto del romanzo rosa più antico d’Europa. Davanti ai
corridori, 164 chilometri che s’insinuano tra le dolci pieghe della costa e le più aspre asperità
dell’entroterra, fino a Tirana, dove la prima maglia rosa sarà consegnata – forse – ma non senza
dubbi, non senza battaglia.
È una giornata che nasce con il sole alto e le squadre schierate, nervose, come cavalli imbizzarriti
nei recinti del tempo. Wout van Aert, il belga d’acciaio della Visma, chiama l’ammiraglia prima
ancora che il cuore della corsa cominci a battere. Un problema tecnico, forse un presagio. Ma
Wout rientra, lucido, e il plotone si prepara al primo scatto.
La bandiera si abbassa, e l’avventura ha inizio.
Primi chilometri pianeggianti, e già si sente il bisogno di fuga. Gli ardori si accendono, gli uomini si
lanciano. In quattro provano a scappare, cinque li inseguono, ma il gruppo è vigile, famelico, e non
lascia spazio. Solo quando si accende l’accordo perfetto tra tre italiani e due stranieri – Verre,
Tonelli, Moniquet, poi Van der Hoorn e un Bardiani generoso – si forma la fuga buona. Cinque
uomini, cinque sogni in fuga nel cuore d’Albania.
Il gruppo, guidato dalla Lidl-Trek per Mads Pedersen, lascia fare, ma non troppo. Il vantaggio
oscilla come una fune al vento: 1’44”, poi 1’22”, poi ancora 1’50”. La tregua è solo apparente. Le
strade si stringono, il caldo comincia a mordere, i meccanici passano borracce come monete d’oro.
Sulla salita e nei tratti nervosi, si comincia a fare la conta.
Il primo sprint è roba da gentlemen: Tonelli passa per primo, ma non c’è battaglia tra i fuggitivi. Al
secondo, invece, Tarozzi si prende i punti, ben conscio che possono pesare più di una salita.
Ma dietro si prepara la guerra. Una caduta a -91,2 km coinvolge Ayuso, uno dei favoriti. Si rialza
come un guerriero, riparte, rientra, ma il gruppo ha fiutato il sangue e accelera. Il vantaggio dei
cinque si assottiglia, e l’armonia si sfalda. Van der Hoorn perde le ruote, restano in quattro, poi in
tre. Verre tenta l’impresa solitaria, va via con coraggio, ma la discesa non perdona. L’asfalto cuce il
suo destino con il gruppo che rimonta come un’onda.
A -40 km l’utopia della fuga è finita. I fuggitivi vengono riassorbiti, come stelle cadenti svanite
all’alba. I velocisti cominciano a saltare, la salita di Surrel seleziona, il gruppo è un elastico tirato al
limite. Fortunato della Astana prende i punti al secondo GPM, mentre si entra nel tratto tecnico,
tortuoso, il primo assaggio del finale.
A -23 km primo passaggio sul traguardo, le squadre si ricompattano. La Lidl Trek torna davanti,
macina, sacrifica, spinge. Pedersen è protetto come un re. A -18 km si risale Surrel, è l’ultimo
muro: chi ha qualcosa deve darlo ora, o mai più. Ciccone scollina per primo, e lancia la discesa
come un messaggero d’epoche antiche.
Poi la corsa diventa caos.
A -5,5 km una caduta stronca le ambizioni di Mikel Landa, dolorante alla schiena, mentre Bouchard
resta coinvolto. La corsa non aspetta, lanciata verso il destino.
Ultimi tremila metri: la quiete prima della tempesta. Gli sprinter si marcano, si studiano, si
temono. A -1 km si sciolgono i treni, si aprono i ventagli della velocità. Gli ultimi uomini danno
tutto, sacrificano ogni energia per lanciare i loro capitani.
Ed è volata.
Van Aert parte, ma Pedersen lo affianca, lo supera, lo doma.
Mads Pedersen vince a Tirana e conquista la maglia rosa. Il Giro d’Italia comincia nel nome del
nord, sotto il sole dei Balcani, con una vittoria conquistata con strategia, forza e quel pizzico di
follia che rende il ciclismo uno sport diverso da ogni altro.
Il cuore del Giro ha ripreso a battere. E l’epopea è appena cominciata.
![]()