Nel pomeriggio tiepido della Sardegna che profuma già d’estate, il Cagliari s'è presentato sul prato
dell’Unipol Domus con il passo incerto di chi ha appena ricordato com’è fatto il pericolo ma non ha
ancora deciso se affrontarlo o aggirarlo. Davanti, un’Udinese che, paradosso beffardo del
calendario, non aveva più nulla da chiedere al campionato. Né sogni europei, né incubi di
retrocessione: solo l’orgoglio. Ma è stato proprio questo – l’orgoglio – a fare la differenza. I
friulani, liberi da pressioni, hanno onorato la maglia con un’intensità che ha fatto arrossire i
rossoblù, teoricamente ancora impegnati nella lotta per la salvezza.
Il risultato – 1 a 2 per gli ospiti – non restituisce appieno la fotografia della gara, ma ne racconta il
destino: quello di una squadra, quella rossoblù, incapace di alzare la voce, persino quando il tempo
lo permetteva e l’occasione lo imponeva.
Ma cos’è successo veramente sul rettangolo verde, dinanzi agli occhi attoniti di un pubblico che
attendeva conferme dopo la prova volitiva di Verona? È successo che il Cagliari ha iniziato come un
viandante stanco: attento ma guardingo, ordinato ma timoroso, deciso solo nel non prendere gol.
E difatti per i primi venti minuti, le due formazioni si studiano senza mai realmente affondare. Poi
qualcosa si rompe, come una corda tesa da troppo tempo. L’Udinese comincia ad avanzare con
decisione, trovando varchi evidenti nei meccanismi difensivi rossoblù. Palomino, pur volenteroso,
arranca; Luperto, più che un baluardo, appare come un castello di sabbia esposto alla marea: e
infatti, il primo gol dei friulani arriva da lì, da un’incertezza che diventa sentenza.
Il Cagliari, allora, abbozza una reazione. Ma è solo un barlume, una fiammella tremula nel vento. È
nel cuore della prima frazione che arriva l’occasione più grande per rimettere il discorso in
equilibrio: Piccoli, solo davanti al portiere, fallisce con un tiro molle, l’immagine perfetta della
giornata sarda. Eppure, pochi istanti dopo, nel miracolo di cinque minuti rubati all’anonimato,
ecco l’orgoglio: Makoumbou pennella un assist sontuoso, Zortea brucia tutti sul tempo e segna
con la freddezza di un attaccante navigato. Uno a uno, e il popolo sardo si illude, per un attimo,
che la partita possa girare.
Ma il secondo tempo non conferma le promesse del primo. Anzi, è lì che si consuma la vera
disfatta, quella invisibile ma impietosa, che non fa rumore ma lascia cicatrici. I rossoblù non
ripartono: arretrano, barcollano, scompaiono. Il centrocampo si fa rarefatto, come un cielo
nuvoloso che non promette pioggia ma toglie luce. Marin, nuovamente fuori ruolo, è un’ombra
sbiadita, Adopo rincorre senza costrutto, e quando anche Makoumbou sparisce dopo l’assist a
Zortea. L’Udinese, squadra semplice ma concreta, capisce che può chiuderla e lo fa: Kristensen,
lasciato libero da un Augello in versione turista, sigla il gol del definitivo vantaggio.
E mentre l’orologio scorre, i cambi tardano ad incidere. Gaetano, Felici, Deiola: buona volontà, ma
nulla che ribalti l’inerzia. Il Cagliari resta lì, in apnea, come chi aspetta un fischio liberatorio più che
un’opportunità.
E il perché? Perché una squadra così spenta, proprio oggi? È forse il frutto di un’impostazione
tattica troppo prudente, o di una mentalità che predica il non prenderle senza mai imparare a
darle? Ed è qui che il discorso si fa amaro. Davide Nicola, allenatore intelligente e generoso, pare
ancora una volta ostinarsi con uomini e idee che la stagione ha già smentito più volte. Se non ci
sono emergenze in attacco – e non ce n’erano – perché riproporre schemi e interpreti che hanno
dimostrato di non funzionare? La squadra dà l'impressione di essere allenata più alla paura che al
coraggio, come un esercito che parte per la battaglia con l’ordine di non sparare mai il primo
colpo.
Chi ha assistito a questa partita ha visto molto più di una sconfitta: ha visto una squadra che, dopo
il gol, ha smesso di credere in sé stessa, ha visto undici uomini in campo che, più che combattere,
hanno cercato semplicemente di sopravvivere, e ha visto un pubblico stanco di sacrifici che
restano senza risposta. La resa è stata totale: il Cagliari non è stato dominato dagli avversari, anzi
si è arreso da solo, lasciando parlare la propria incapacità.
E poi, come colonna sonora di un finale amaro, la scena sui tribuni ha detto tutto: mentre la curva
nord, fedele al tifo più caloroso, cantava e abbracciava i giocatori, questi ultimi si affacciavano
verso di essa, quasi per cercare un conforto che il loro spirito ormai sconfitto meritava. Nel
contempo, la curva sud, con fischi discordanti e amari, veniva snobbata, voltandole letteralmente
le spalle. In quella divisione netta tra chi conforta e chi rimprovera, si riflette l’anima di una
squadra che ha scelto la via dell’inerzia, preferendo la carezza all’urlo della critica.
Perché il calcio, soprattutto a questo livello, è una questione di volontà. E quando manca quella
volontà, nessuna tattica potrà mai colmare il vuoto. L’Udinese, priva ormai di ambizioni ulteriori
ma con la dignità intatta, ha dimostrato cosa significa rispettare il gioco. Il Cagliari, che avrebbe
dovuto lottare per ogni punto come se la vita stessa dipendesse da esso, ha preferito passeggiare
sull’orlo del precipizio.
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