Sulla terra leggeri: Sergio Atzeni, trent’anni dopo

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Ci sono autori che, più che scrivere libri, sembrano scrivere la loro stessa terra. Sergio Atzeni appartiene a questa rara schiera. A trent’anni dalla sua scomparsa, Cagliari sceglie di ricordarlo intitolandogli il Piccolo Auditorium di piazzetta Dettori. Non un gesto burocratico, ma un atto di restituzione: la città ridà voce a uno scrittore che, con la sua prosa, ha saputo raccontare la Sardegna non come periferia, ma come centro pulsante di civiltà, mito e destino.

Chi ha letto Passavamo sulla terra leggeri conosce la potenza di quella narrazione corale che si apre con i Nuragici e si chiude con la modernità. Non è un romanzo storico, non è un mito ricostruito: è una sinfonia di voci, un’epopea lirica che accoglie in sé il respiro dell’isola, oscillando tra cronaca e leggenda. Atzeni aveva la rara capacità di far parlare i morti e i vivi con la stessa naturalezza, di confondere i confini tra ciò che è stato e ciò che poteva essere. In lui la Sardegna non era mai archeologia, ma futuro possibile.

La sua opera è breve, perché la morte lo colse giovane, a 43 anni, tra le acque di Carloforte. Ma quella brevità ha il sapore delle vite che bruciano in fretta e lasciano un solco più profondo. Il figlio di Bakunìn, romanzo di formazione e disillusione, affonda nelle contraddizioni di una società che conosce la fatica, la lotta, l’emigrazione. Apologo del giudice bandito è invece una parabola sulla giustizia e sull’utopia, in cui la lingua di Atzeni si fa scarnificata e tagliente, come il destino dei suoi personaggi. E poi c’è Bellas Mariposas, il racconto più radicale, dove il dialetto e l’italiano si intrecciano per dare voce a Caterina, adolescente cagliaritana che attraversa la città con la furia e l’innocenza di chi non si rassegna. In quelle pagine c’è la prova definitiva che Atzeni non scriveva “sulla” Sardegna, ma “dalla” Sardegna, cioè da un margine che diventava centro, da una periferia che si faceva linguaggio universale.

Definiva se stesso “sardo, italiano, europeo”. Non per smania di appartenenza multipla, ma perché la sua scrittura non accettava steccati. In lui convivono la lezione di García Márquez, l’eco di Borges, il respiro epico di Tolstoj, senza mai smarrire la cadenza della sua città. La lingua, per Atzeni, era un corpo vivo: capace di mischiare italiano e sardo, registro alto e parlata quotidiana, senza mai cadere nella caricatura. In questo era davvero un autore europeo: perché sapeva che ogni lingua è una frontiera da attraversare.

Il tributo che Cagliari gli dedica con Sulla terra leggeri non è dunque commemorazione, ma invito a riscoprirne l’urgenza. Le musiche di Moses Concas, lo spettacolo di Giovanni Carroni, i seminari al Liceo Siotto: tutto converge nel riaffermare che Atzeni non appartiene al passato, ma al presente che continua a interrogarci.

Leggerlo oggi significa ancora misurarsi con un’idea di letteratura che non consola ma inquieta, che non addomestica ma rilancia domande. Atzeni non ci ha lasciato un monumento: ci ha lasciato una voce che continua a chiamare. E a trent’anni dalla sua morte, quella voce risuona con la stessa forza di allora, leggera e pesante insieme, come la terra che raccontava.