Accadde oggi: 188 anni fa moriva Giacomo Leopardi

-


Il 14 giugno 1837, nella Napoli febbricitante del colera e delle speranze infrante, si spegneva Giacomo Leopardi. Aveva trentotto anni, pochi giorni lo separavano dai trentanove. Moriva un poeta, ma nasceva un mito letterario che ancora oggi sovrasta il tempo, la critica e il gusto delle epoche.

Nato a Recanati il 29 giugno 1798, figlio del conte Monaldo e di Adelaide Antici, Giacomo fu marchigiano e universale al tempo stesso. La biblioteca paterna — un monumento di oltre 20.000 volumi — fu il suo primo universo, il suo eremo, il suo supplizio. A soli dieci anni traduceva il latino e i classici; poco dopo, si tuffò in quello che lui stesso definì lo «studio matto e disperatissimo»: anni febbrili di letture, traduzioni, dissertazioni, in cui assimilò greco, latino, ebraico, francese, filosofia, storia, filologia, poesia. Si nutriva d’erudizione con la fame di chi cerca non solo sapere, ma un senso al dolore di vivere.

Il prezzo di quella fame fu altissimo. Già adolescente accusava disturbi alla vista e gravi deformazioni fisiche alla schiena. Nella penombra degli studi, cresceva il suo corpo malato e si acuiva quella sensibilità feroce che fece di lui il più lucido cantore del dolore umano.

Se il padre gli lasciò in eredità il sapere, la madre gli impose una fredda educazione fatta di austerità e devozione religiosa. Di lei Leopardi scrisse pagine dure nello Zibaldone, il suo sterminato diario di pensiero: 4526 pagine in cui ragionò di tutto ciò che la filosofia, la scienza e la letteratura offrivano alla sua mente inquieta.

Il genio di Leopardi non rimase chiuso a Recanati. I suoi Idilli — dove brilla L’infinito, con quell’incedere sommesso e assoluto che ancora oggi commuove — i Canti, le Operette morali e infine La ginestra, la sua sfida estrema al destino avverso, sono vertici insuperati della nostra letteratura. In quelle pagine abita il suo pensiero: un pessimismo che fu definito storico, cosmico, eroico. Ma che, in fondo, era solo un’adesione spietata alla realtà, osservata senza illusioni e senza inganni.

Negli ultimi anni trovò rifugio a Napoli, ospite e amico inseparabile di Antonio Ranieri. In quella città, che amò e patì, lo colse il suo ultimo giorno. Era il 14 giugno. Dopo un sontuoso pasto pomeridiano — confetti, cioccolata, minestra, limonata — l’asma, suo antico demone, lo soffocò nel giro di poche ore. Morì, pare, fra le braccia di Ranieri, sussurrando: «Addio, Totonno, non veggo più luce».

Eppure la luce di Leopardi non si è mai spenta. Continua a brillare in ogni verso, in ogni riflessione, in ogni domanda che costringe chi lo legge a confrontarsi con il mistero crudele e sublime dell’esistenza.
«Se la felicità non esiste, cos’è dunque la vita?», scrisse. La risposta non la diede mai. Ma nella sua poesia, ancora oggi, l’uomo moderno cerca il coraggio di guardare in faccia la vertigine.