In Sardegna, la parola "grano" si traduce in "trigu" o "tricu", a seconda delle zone. Ma dietro queste semplici varianti si cela un universo di biodiversità linguistica e agricola. Varietà locali di frumento, sopravvissute alla modernizzazione del Novecento, costituiscono oggi un patrimonio inestimabile, culturale prima ancora che alimentare.
Il libro Trigu – La storia dei grani storici della Sardegna attraverso l’indagine etimologica delle denominazioni locali, di Veronica Atzei e Francesco Mascia, racconta questo tesoro con uno sguardo che unisce botanica e linguistica. Gli autori hanno censito almeno novanta varietà, molte delle quali rischiavano l’estinzione sotto il peso della standardizzazione agricola. I nomi raccontano tutto: trigu biancu, trigu murru, trigu arrubiu arista niedda descrivono caratteristiche visive; trigu romanu, trigu turcu evocano origini esterne; trigu de Borutta, trigu Montrestinu fissano un luogo nella storia agricola dell’isola.
Negli ultimi anni, il recupero di queste varietà è diventato un obiettivo concreto. A Guspini, l’azienda “Agrobass – Sardinian Farm” ha riportato in coltivazione il “Quarantinu”, un grano duro seminato nei mesi invernali e oggi riconosciuto nell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali.
La Rete “Sardo Sole” e cooperative come la Madonna d’Itria di Villamar, in collaborazione con Agris Ricerche, stanno rilanciando varietà come il “Trigu Murru” e il “Trigu Cossu”, destinati alla panificazione e alla produzione dolciaria. Il recupero di questi grani non è solo una questione di agricoltura: è un atto politico e culturale. Significa restituire voce e radici a un’isola che ha saputo custodire nella lingua e nella terra la propria memoria.
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