L'angolo filosofico, L'heideggerismo: la fuga dalla realtà elevata a filosofia

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  Martin Heidegger, filosofo dell’Essere e teorico dell’autenticità, si è rivelato in realtà un esperto nell’arte della fuga. Quell’aneddoto del 1944, quando confidò a una studentessa la sconfitta imminente della Germania chiedendole però di non rivelarlo alla moglie fervente nazista, parla più della sua filosofia di qualunque suo testo. Heidegger, pensatore della verità assoluta, è lo stesso uomo che nella vita privata mancava di coraggio: il coraggio di dire alla propria famiglia cosa realmente pensava, di opporsi al disastro a cui la sua stessa nazione andava incontro, di prendere posizione in un momento in cui molti, tra cui Camus e Sartre, scelsero di esporsi nonostante i rischi. 

  Invece lui rimaneva dietro le sue formule criptiche, in quel linguaggio inaccessibile che tanti, all’epoca come oggi, trovano affascinante e misterioso. Mentre gli esistenzialisti francesi e altri pensatori affrontavano la guerra e l’occupazione, rischiando la vita per affermare la loro visione e opporsi al regime, Heidegger trovava rifugio nella Foresta Nera, circondato dal silenzio delle montagne e delle sue elucubrazioni sull’Essere, su quel “Dasein” che sosteneva essere la condizione autentica dell’uomo, ma che mai si è spinto a dimostrare nella pratica. Nella sua baita, al riparo dai venti della Storia, Heidegger meditava in isolamento mentre attorno a lui la realtà chiedeva risposte vere, azioni concrete, sacrifici che lui non era disposto a fare. Siamo nell’epoca delle grandi catastrofi, dei regimi totalitari, della resistenza armata, e Heidegger preferisce parlare di “chiacchiera insignificante”, disinteressato a ciò che accade davvero nelle strade, nelle case, nelle trincee. 

  La filosofia di Heidegger è l’apologia dell’immobilismo, è una torre d’avorio ben nascosta nella sua foresta. Cioran, suo contemporaneo e critico feroce, vedeva in lui un maestro dell’“escroquerie philosophique”, una sorta di truffa filosofica mascherata da profondità. Heidegger affermava che “il niente nientifica” senza mai chiarire perché quest’affermazione avesse un senso. Era un uomo che, davanti alle domande essenziali, rispondeva con un linguaggio contorto, impenetrabile, sicuro che i suoi lettori avrebbero preferito annuire piuttosto che rischiare di sembrare ignoranti. Jean-Paul Sartre, che una volta dichiarò di considerarsi suo allievo, venne liquidato in modo sprezzante, accusato di preoccuparsi “dell’uomo e non dell’Essere”. In effetti, ad Heidegger dell’uomo non importava nulla: le sue sofferenze, la sua storia, il suo corpo, persino la fatica del lavoro gli apparivano dettagli insignificanti. Non trovava interesse nemmeno nella tragedia degli ebrei e delle altre vittime dei campi di concentramento. Persino la questione della ricostruzione post-bellica, che angosciava la Germania, veniva ridotta da Heidegger a una questione di “sentirsi o meno a casa propria” come se l’alienazione non fosse una questione storica o sociale, ma una condizione universale contro la quale nulla poteva farsi. L’heideggerismo è, in fondo, un pretesto per continuare a fare ciò che gran parte dei filosofi ha sempre fatto: contemplare la vita senza mai rischiare di cambiarla. Heidegger pone interrogativi seri, è vero: la tecnica ci ha sopraffatti, la ragione vacilla, l’uomo è alienato.

  Ma la sua risposta non è quella di Marx, che lega la crisi alla storia del capitale, né quella di Freud, che indaga nelle pieghe dell’inconscio individuale. Heidegger rimanda tutto a un oscuro “destino dell’Essere” che risale a Platone, e così si sottrae a ogni tentativo di impegno reale. Davanti a problemi concreti come la crisi degli alloggi e la disoccupazione post-bellica, si limita a parlare di “crisi esistenziale”, di quel “non sentirsi a casa propria” che per lui è la radice di ogni problema, ignorando che la vita delle persone è fatta di case, di strade, di bisogni essenziali. In definitiva, Heidegger ci consegna un pensiero che invita alla resa. Quando, verso la fine della sua vita, afferma che “solo un dio ci può salvare”, svela tutta la sua impotenza di fronte a ciò che lui stesso aveva cercato di ignorare per decenni. Un filosofo che si affida a un dio tradisce il proprio sapere. La filosofia diventa così una nobile paralisi, un’arte della rinuncia travestita da speculazione profonda. 

  Heidegger dice che il linguaggio è “la casa dell’Essere”, ma il suo linguaggio si chiude su se stesso, come una casa senza finestre, come una prigione. Non resta che ammettere che l’heideggerismo è stato una filosofia della fuga, una dottrina per coloro che volevano contemplare il mondo senza mai sporcarsi le mani per cambiarlo. Heidegger e i suoi seguaci ci offrono un pensiero che sembra sospeso in un limbo, un intricato gioco di parole e concetti che non ha mai toccato il suolo della realtà. Forse la filosofia ha bisogno di eroi, di menti che si pieghino sul mondo per cercare di capirlo, per illuminarne gli angoli più oscuri, per proporre soluzioni, o quantomeno per rischiare qualcosa in cambio di un’idea. Ma l’heideggerismo è stata la fine di tutto questo: il rifugio di chi, spaventato dalla Storia e dai suoi conflitti, preferisce guardare altrove, recitando una litania sull’Essere che non ha mai riguardato l’uomo, che non ha mai cercato di risolvere le sue angosce, le sue miserie, le sue speranze.