Gli altri marinai, zitti, sottosforzo a reggere in equilibrio un peso immane che gravava sulle schiene e sulle gambe. Gambe ormai stanche dagli anni, stremate da fatiche immani, quelle del mare e del remare, talvolta controvento, lottando per rientrare in porto. “Posa seu” era il segnale sottointeso di fermare il tiro della cima quando la barca avanzando liberava la “faranga” a poppa, era la pausa per riprendere fiato, erano le uniche parole che si udivano in quello scenario che ricordava con molto realismo un girone dantesco. Se la barca era di dimensioni ragguardevoli tre, quattro uomini per lato, con la schiena contro la carena la tenevano in equilibrio, le braccia tirate all’indietro agganciavano il bordo in una sorta di morsa umana diventando un tutt’uno, poteva capitare che la barca sbandava da un lato, per qualche istante i marinai venivano sollevati da terra. Dal lato opposto gli uomini venivano caricati, si sollevava così un coro di imprecazioni da ambo la parti, nonostante fossero fedeli alla “madonna di Valverd”,da sempre, tutti, e il coro smetteva quando la barca ritornava in equilibrio e il fiato serviva a reggere lo sforzo. Essere scoordinati poteva costare caro, la barca poteva andarsene per conto suo, travolgendo tutti, un attimo di disattenzione si trasformava in tragedia, ecco perché bastavano due sole parole a comandare l’avanzamento e la fermata. L’ascat era lungo per non essere troppo ripido, non aveva molta pendenza, e l’operazione di alaggio richiedeva tempo e quindi fatiche, le parole di troppo erano inutili e dannose. Raggiunto il piano della banchina, le tensioni si allentavano la barca non si opponeva all’avanzamento come nella salita, ora sembrava un gioco posteggiarla in piano. Si indirizzava al posto più idoneo con facilità, facendola roteare su se stessa usando come perno una sola “faranga” al centro della chiglia, “trinca la balca” ruota la barca per fargli cambiare direzione.
Raggiunta la posizione la barca “sa taccunava a ma lus taccus”si puntellava con grossi legni che l’avrebbero tenuta dritta in maniera stabile. Gli invasi, sempre ingombranti, ancora non erano apparsi a popolare come scheletri le banchine quando le barche erano in acqua, “lus taccus i las farangas” umili ma indispensabili, invece stavano a bordo e non intralciavano nessuno. Con la barca “taccunara” si poteva ora salire a bordo per togliere “l’esu” il tappo che copriva un foro costruito nella parte bassa della carena e con la barca a terra si poteva scaricare l’acqua di sentina. Se la barca era in acqua, togliendo “l’esu” la barca si immergeva, ma non affondava essendo in legno, si faceva immergere “pe fè astrigni la gnegna” perché il legno si stringesse e la barca tornasse stagna, si combatteva cosi il fenomeno che oggi prende il nome di Osmosi dello scafo in vetroresina e che non si può combattere in nessun modo. Finita “l astrignira si rimetteva “l’esu i sa dasburiava la balca” si svuotava la barca e si poteva riprendere la navigazione con la barca più bella e più superba che pria. Bon vent.