“La marina de la las balcas”, il porto delle barche dei pesca- catori, di Alghero, il solo e l’unico di allora, lo specchio di mare antistante la banchina Sanità e la banchina Dogana pullulava di barche di ogni stazza e misura.
Bastiments, aspagnulettas, cius erano “ramigiats” ormeggiati
sulle banchine del porto in ordine di pescaggio. A interrompere
la continuità c’erano “lus ascats” gli scali. Quattro scali ben
distanziati da lunghi tratti di banchine dove mettere le barche
“an sec”a terra, all’asciutto, sulla massicciata della banchina.
Gli scali posti all’inizio e alla fine della banchina Sanità,
oggi tombati, erano costruiti in trachite ed avevano la basolatura liscia. Gli scali che si trovavano sulla banchina di fronte a via Garibaldi avevano la pavimentazione in
cemento con grosse travi di legno poste parallele alla battigia,
ed erano fissate sul pavimento tramite grossi tiranti in
acciaio inghisati sul piano. Tutta questa architettura aveva una
logica che rispondeva alle esigenze dell’uso cui erano destinate ad assolvere. Ma a noi tutto questo non importa…
Quando si doveva “pultà an terra una balca” la procedura era
quasi sempre la stessa.
La barca veniva accostata il più possibile alla battigia,
a bordo rimaneva solo “lu duegnu de la balca” ,il padrone della
barca, che dopo averla portata con la prua vicino allo scalo
“ na traieva l’agiagiu i na sumava lu timò” disaccoppiava la leva
orizzontale dal timone e sollevava lo stesso sfilandolo dai perni.
La prua della barca sollevata con attenzione o tirata con
“la sima lligara alla rora de prua” la fune legata alla ruota di prua (la punta finale della chiglia che sporge in alto).
Lo scafo iniziava così, appoggiandosi a terra, la sua lenta risalita lungo lo scalo di alaggio “l’ascat”, ma non doveva stare a contatto con la dura pietra poiché l’ urto la poteva “ascratadà”
lesionare. Approffitando di un leggero beccheggio si frapponeva
fra la chiglia a prua ed il lastricato in pietra “una faranga” un robusto parallelepipedo in legno di ulivo lungo circa 40 cm con
una base di 10x10cm, con una scanalatura larga quanto la chiglia da farci passare dentro. Ogni barca aveva le sue “farangas” grandi in proporzione allo scafo da sopportare e senza di queste la barca, allora, non si poteva tirare in secca.
“La faranga” era ed è la massima espressione della semplicità,
e del genio marinaresco, questa guida appoggio permetteva di traslare enormi pesi minimizzando l’attrito ed eliminando i letali sobbalzi, tutto filava liscio grazie “ al seu” il sego.
Nel frattempo “la gent de la marina”la comunità dei pescatori,
senza essere chiamati, facevano “roru”gruppo attorno alla barca,
tutti consapevoli che a breve anche ciascuno di loro avrebbe
avuto bisogno di qualcuno o “pariccius omans pe dà una
mà a pultà an terra la propria balca”.
Si arrotolavano i pantaloni e le maniche delle camicie,
“s’ amburicavan las gamberas i las manigas de la camisa”
si toglievano le scarpe sempre larghe, a vederle anche loro parevano “farangas”, la suole dure intrise di sale facevano un tutt’uno con le piante dei piedi più avvezze a calcare il suolo, che a sentire il liscio del cuoio, calze non c’erano.
Scalzi, prendevano posizione, “chi a tirà la sima, chi a mantrenda la balca” chi tirava la cima (la fune), chi a tenere la barca. Si disponevano alla distanza necessaria per equilibrare e
dividere il peso della barca. Nessuno dava ordini, l’operazione
potevano farla anche alla luce delle stelle per le tante volte che
l’ avevano fatta.
Assicurata la prima “faranga a sotta de la chiglia” una voce
secca come una fucilata dava il via al tiro “venga...vengaaa” la cima si tendeva e la barca veniva estratta dal mare, “già era pronta la sagona faranga untiminara de seu”la barca ora poggiava su due “farangas” gocciolava di acqua, sembrava
piangesse per il distacco dal suo elemento naturale. Gli uomini
prendevano fiato e allentavano la tensione della cima, aspettan-
do che qualcuno, talvolta un ragazzo, posizionasse la terza “faranga”...”venga...vengaaa, (avanti...avanti) al grido ancora si tendeva la cima.
Il peso della barca si faceva sentire, ma non si poteva mollare,
unico sollievo era al“posa seu a la faranga” metti il sego ( nella scanalatura della “faranga”nella speranza che l’attrito diminuisse e allentasse la fatica).