Ambiente Le terre collettive in Italia: un patrimonio dimenticato da riscoprire 04 nov 2025 09:45 - Pasqualino Trubia Boschi, pascoli, campi, zone umide e tratti di costa appartengono ancora oggi alle collettività locali italiane. Un tesoro comune, spesso ignorato e a volte oggetto di mire speculative o usi distorti. Ma quanto è grande davvero questa ricchezza condivisa? Le stime parlano chiaro, anche se i numeri certi mancano: le terre collettive coprirebbero tra il 7 e il 10% del territorio nazionale. Secondo i dati più antichi dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria, nel 1947 risultavano oltre tre milioni di ettari soggetti a diritti di uso civico, la maggior parte gestiti dai Comuni, il resto da associazioni agrarie. Studi successivi, mai completati, suggeriscono che potrebbero aggiungersene almeno altri due milioni. Si tratta di realtà diversissime: dalle Regole ampezzane in Veneto alla Partecipanza del Bosco delle Sorti in Piemonte, dai casi di recupero di terre occupate illegalmente — come a Troina, in Sicilia — fino ai conflitti civili di Lula, in Sardegna. Dopo decenni di abbandono, qualcosa però si muove. Azioni legali e maggiore sensibilità pubblica stanno riportando attenzione su un tema dimenticato. È in questo quadro che il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG), storica associazione ecologista attiva dal 1992, ha presentato il 4 novembre 2025 una richiesta di accesso civico e informazioni ambientali a tutte le Regioni e Province autonome. Obiettivo: conoscere l’estensione reale dei demani civici, i provvedimenti di recupero dei terreni occupati e gli eventuali trasferimenti di diritti di uso civico. Per legge, questi beni appartengono alla collettività e sono inalienabili, indivisibili, imprescrittibili e inusucapibili. Godono inoltre di tutela paesaggistica automatica, e ogni intervento che ne alteri la destinazione è possibile solo con autorizzazione regionale e compensazione a beneficio della comunità. In sintesi: i domini collettivi sono la memoria viva di un’Italia rurale e solidale, dove la terra non era proprietà privata ma bene comune. Un’eredità che oggi rischia di essere dimenticata, proprio mentre potrebbe diventare un modello di sostenibilità e partecipazione. Come ricorda Stefano Deliperi del Gruppo d’Intervento Giuridico, “si tratta di un grande patrimonio ambientale collettivo che dobbiamo conservare e custodire per le generazioni future.” Un dovere, più che un diritto.
Boschi, pascoli, campi, zone umide e tratti di costa appartengono ancora oggi alle collettività locali italiane. Un tesoro comune, spesso ignorato e a volte oggetto di mire speculative o usi distorti. Ma quanto è grande davvero questa ricchezza condivisa? Le stime parlano chiaro, anche se i numeri certi mancano: le terre collettive coprirebbero tra il 7 e il 10% del territorio nazionale. Secondo i dati più antichi dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria, nel 1947 risultavano oltre tre milioni di ettari soggetti a diritti di uso civico, la maggior parte gestiti dai Comuni, il resto da associazioni agrarie. Studi successivi, mai completati, suggeriscono che potrebbero aggiungersene almeno altri due milioni. Si tratta di realtà diversissime: dalle Regole ampezzane in Veneto alla Partecipanza del Bosco delle Sorti in Piemonte, dai casi di recupero di terre occupate illegalmente — come a Troina, in Sicilia — fino ai conflitti civili di Lula, in Sardegna. Dopo decenni di abbandono, qualcosa però si muove. Azioni legali e maggiore sensibilità pubblica stanno riportando attenzione su un tema dimenticato. È in questo quadro che il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG), storica associazione ecologista attiva dal 1992, ha presentato il 4 novembre 2025 una richiesta di accesso civico e informazioni ambientali a tutte le Regioni e Province autonome. Obiettivo: conoscere l’estensione reale dei demani civici, i provvedimenti di recupero dei terreni occupati e gli eventuali trasferimenti di diritti di uso civico. Per legge, questi beni appartengono alla collettività e sono inalienabili, indivisibili, imprescrittibili e inusucapibili. Godono inoltre di tutela paesaggistica automatica, e ogni intervento che ne alteri la destinazione è possibile solo con autorizzazione regionale e compensazione a beneficio della comunità. In sintesi: i domini collettivi sono la memoria viva di un’Italia rurale e solidale, dove la terra non era proprietà privata ma bene comune. Un’eredità che oggi rischia di essere dimenticata, proprio mentre potrebbe diventare un modello di sostenibilità e partecipazione. Come ricorda Stefano Deliperi del Gruppo d’Intervento Giuridico, “si tratta di un grande patrimonio ambientale collettivo che dobbiamo conservare e custodire per le generazioni future.” Un dovere, più che un diritto.