Ci risiamo. La solita commedia italiana, il solito teatrino democratico con un copione noto e una regia mediocre. Anche questa volta, per i referendum dell'8 e 9 giugno, i protagonisti saranno loro: scrutatori e presidenti di seggio, chiamati a garantire il corretto svolgimento del voto, a scartabellare schede fino all'alba, a presidiare seggi deserti, a litigare con elettori impazienti. E tutto questo per la modica cifra di 192 euro per gli scrutatori e 282 euro per i presidenti. Un compenso che, a sentire i burocrati, sarebbe adeguato. Adeguato a cosa, esattamente?
Ma facciamo un passo indietro. Nelle scorse amministrative, gli onorari sono stati aumentati del 15%. Motivo? La crisi delle adesioni. Perché sì, persino la democrazia ha il suo mercato e i suoi mercenari. Nessuno vuole più fare lo scrutatore o il presidente, nessuno è più disposto a sacrificare un weekend intero per quattro soldi. E allora, cosa si fa? Si alza un po' la paga, si getta qualche briciola in più ai volontari della democrazia, si spera che basti a coprire il vuoto.
Ma questa volta no. Questa volta niente aumento. Niente premio di consolazione per chi decide di trascorrere due giorni chiuso in una scuola fredda o a calda a seconda della stagione, sorvegliando urne e schede come se fosse il custode di un tesoro. Perché? Semplice: evidentemente non importa molto di questo referendum. Oppure, più probabilmente, non ci sono soldi. Sì, perché si sa, i soldi ci sono sempre per i bonus a pioggia, per i consulenti pagati a peso d'oro, per le campagne elettorali dai costi faraonici. Ma per chi deve fare il lavoro sporco, per chi deve garantire che tutto fili liscio, non resta nulla.
E allora eccoci qui. Una democrazia che si regge sui volontari pagati come manovali di uno scantinato, che lavorano il sabato, la domenica e il lunedì, per poi sentirsi dire che "è un ruolo di prestigio". Una democrazia che si regge sulla generosità di chi ancora crede che votare sia un dovere, che contare le schede sia un onore. Una democrazia che celebra se stessa a suon di belle parole, mentre dietro le quinte i contabili fanno quadrare i conti, tagliando gli spiccioli a chi deve sudare davvero.
Sì, perché questa volta il turno elettorale è anche peggio: si vota fino al lunedì, fino alle 15, perché qualcuno ha pensato che allungare la tortura fosse una buona idea. Ma non un euro in più per chi dovrà stare lì, inchiodato a una sedia, con le occhiaie e la schiena a pezzi. Perché il sacrificio è bello solo quando lo fanno gli altri.
E poi c’è il colpo di genio finale: il riposo compensativo. Una presa in giro fatta e finita. Perché non è pagato, perché non è garantito, perché spesso è solo una promessa mai mantenuta. Ma fa niente, perché l’importante è salvare le apparenze. E le apparenze, in Italia, sono tutto.
Siamo al ridicolo. Siamo al punto in cui la democrazia costa meno di una pizza. Siamo al punto in cui chiediamo ai cittadini di sacrificare il loro tempo, la loro salute e la loro pazienza per una manciata di euro. E poi ci sorprendiamo se le adesioni crollano, se i seggi restano scoperti, se la partecipazione svanisce. Ma forse è meglio così. Forse è giusto che questo teatro cada a pezzi. Perché una democrazia che non sa nemmeno pagare chi garantisce il voto è una democrazia che non merita di essere difesa.
E voi, scrutatori e presidenti, voi che ancora una volta vi siete fatti avanti, voi che credete che contare le schede sia un gesto civico, vi dico solo una cosa: avete tutta la mia stima. Ma ricordate: mentre voi sarete lì a votare schede e a combattere col sonno, qualcuno starà decidendo quanto tagliare al prossimo bilancio. Magari proprio sul vostro compenso. E allora forse capirete che la democrazia, in questo Paese, è solo una parola vuota.