Il mondo guarda avanti, o almeno così vorrebbe farci credere l'Unione Europea, con l’entrata in vigore della Direttiva 2019/904. Una norma ambiziosa, adottata il 5 giugno 2019, che punta a ridurre l’impatto ambientale dei prodotti in plastica e a promuovere un’economia circolare. Dal 1° gennaio 2025, infatti, ogni Stato membro dovrà assicurare che le bottiglie in PET – polietilene tereftalato, per chi ama i tecnicismi – contengano almeno il 25% di plastica riciclata. Non si tratta di un’aspirazione poetica, ma di un impegno vincolante, calcolato come media per tutte le bottiglie immesse sul mercato. E la sfida non finisce qui: nel 2030 la quota dovrà salire al 30%.
Un passo avanti necessario, forse tardivo, per affrontare quella che ormai non è più una crisi, ma un’agonia ambientale.
Per decenni abbiamo consumato e gettato via senza mai chiederci dove andassero a finire le nostre bottiglie, i nostri imballaggi, i nostri bicchieri. Li abbiamo relegati nei fondali marini, li abbiamo abbandonati nei deserti, li abbiamo lasciati entrare nelle nostre catene alimentari. La plastica, questa moderna peste nera, è dappertutto: negli oceani, nei pesci che mangiamo, persino nell’acqua che beviamo. E ora, mentre il pianeta ci presenta il conto, ci troviamo a inseguire affannosamente soluzioni che forse avremmo dovuto adottare decenni fa.
La direttiva, come sottolinea il testo ufficiale, non si limita alle bottiglie. Si tratta di un tentativo più ampio di prevenire e ridurre l’incidenza dei prodotti di plastica monouso sull’ambiente. Una battaglia contro il tempo per eliminare dalla circolazione gli oggetti per cui esistono alternative economicamente sostenibili. E qui si rivela l’altra faccia della medaglia: l’Unione Europea ambisce a un’economia circolare, ma per realizzarla occorre ben più di una norma scritta. Servono investimenti, tecnologia, ma soprattutto un cambio radicale nella mentalità dei produttori e dei consumatori.
Ecco il punto: l’economia circolare non è solo un obiettivo, ma un obbligo morale. Non basta imporre percentuali e scadenze, serve educare, sensibilizzare, coinvolgere. Altrimenti queste bottiglie riciclate diventeranno semplicemente l’ennesima operazione di facciata, un cerotto su una ferita troppo profonda.
C’è poi la questione dei costi. Chi pagherà per questa transizione? Le aziende produttrici, che dovranno adattare i processi? I consumatori, che si ritroveranno a pagare di più per una bottiglia d’acqua? O saranno ancora una volta i Paesi più poveri a fare le spese di un sistema che premia chi inquina e punisce chi cerca di sopravvivere?
Eppure, nonostante le ombre, questa direttiva rappresenta un segnale. È la dimostrazione che, almeno sulla carta, l’Unione Europea ha capito che non si può più aspettare. Ma sarà sufficiente? Le promesse sono molte, le speranze ancora di più. Resta da vedere se, nel 2030, potremo guardare indietro a questo momento e dire che sì, abbiamo fatto la scelta giusta. O se, al contrario, ci troveremo di fronte all’ennesima occasione mancata, in un mondo sempre più sommerso dalla plastica e dalle sue conseguenze.