La geopolitica umana di Dario Fabbri: collettività, potenza e il peso della storia

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  Esistono gli individui, certo. Ma per capire davvero il mondo, bisogna spostare lo sguardo altrove, verso la dimensione collettiva. I gruppi umani, aggregati più o meno omogenei e coerenti, sono gli unici protagonisti in grado di imprimere un segno duraturo sulla storia. È qui che si muove Dario Fabbri con la sua Geopolitica Umana, un’interpretazione delle relazioni internazionali che lascia da parte gli schemi della teoria classica per concentrarsi sulle pulsioni profonde che guidano le collettività.

  Le collettività, sostiene Fabbri, si comportano come veri e propri super-individui. Sono mosse dalle stesse aspirazioni e paure che animano il singolo, con la differenza che la loro esistenza si svolge su orizzonti temporali infinitamente più lunghi. Le potenze, nella lettura fabbriana, non agiscono soltanto per calcolo razionale. Al contrario, sono spinte da ciò che Fabbri chiama “volontà di potenza”, un bisogno quasi esistenziale di affermarsi nella storia, di sopravvivere, di imporsi sugli altri. Una spinta che prescinde, o almeno trascende, la semplice logica economica, perché gli imperi non prosperano solo sui numeri, ma su simboli e miti fondativi. Ma questa visione ha una base solida? Per Fabbri sì, perché la geografia è la struttura immutabile che definisce le possibilità di azione di una collettività. Lo spazio condiziona la politica. Una penisola sarà sempre una penisola, una potenza terrestre non potrà mai agire come una potenza marittima. Tuttavia, e qui sta la novità della geopolitica umana, la geografia da sola non basta. A essa si somma la percezione che una collettività ha di sé stessa e del mondo, costruita attraverso la lingua, la cultura, le credenze condivise. 

  Non c’è determinismo puro nella visione di Fabbri: l’uomo supera il limite naturale, o almeno prova a farlo, reinterpretando il proprio spazio e la propria storia. Un esempio evidente è l’America, il “cuore insulare” del mondo, una potenza marittima per eccellenza, separata dagli altri continenti da due oceani che la proteggono. Gli Stati Uniti sono il prodotto di questa geografia: uno spazio immenso, sicuro, che ha consentito loro di elaborare una strategia unica. Ma oltre alla geografia, c’è la percezione che gli americani hanno di se stessi, quella manifest destiny, il mito di una nazione eletta per guidare il mondo. La somma di geografia e simboli permette di comprendere come gli Stati Uniti siano diventati ciò che sono e perché agiscano come agiscono. Fabbri applica questo schema non solo agli Stati moderni ma anche alle civiltà antiche. Non esistono differenze sostanziali tra Sparta e una potenza moderna, perché entrambe sono mosse dalle stesse dinamiche: il desiderio di potenza, la paura di essere cancellate, la volontà di sopravvivere. È una chiave interpretativa potente, seppur semplificata. Il rischio, infatti, è di leggere la storia alla luce del presente, trovando conferme dove si vogliono vedere e sacrificando la complessità dei contesti storici. È qui che Fabbri si espone di più: la sua narrazione, pur affascinante, tende a piegare i fatti per dimostrare la tesi. Eppure, l’intuizione centrale di Fabbri non è banale. 

  La politica estera, nel suo pensiero, non è solo il prodotto delle decisioni di un singolo leader, ma l’espressione di una strategia che è radicata nella psicologia di una collettività. I leader, per quanto ambiziosi, non creano il destino del proprio popolo. Al massimo lo riconoscono, lo interpretano e lo guidano. Si tratta di un determinismo culturale mitigato, che lascia spazio alla volontà politica ma non nega l’inerzia delle strutture psico-linguistiche, spesso difficili da superare. Questa lettura, però, solleva interrogativi scomodi. Se esistono tratti psicologici collettivi, fino a che punto possiamo descriverli senza cadere nella caricatura? E soprattutto, come evitare che questa narrazione diventi un pretesto per giustificare posizioni ideologiche o, peggio, derive razziste? Fabbri non sembra preoccuparsi di queste derive. Affida il suo pensiero a intuizioni e postulati, senza sentire il bisogno di dimostrarli. In questo senso, il suo libro è più un’opera divulgativa che un contributo rigoroso alla disciplina. C’è poi il rapporto tra potenza ed economia, un altro nodo centrale del pensiero fabbriano. Per l’autore, l’economia non è l’obiettivo delle potenze storiche, ma un mezzo per realizzare qualcosa di più grande. È una visione anti-economicistica che ribalta l’approccio di altri analisti, come Peter Zeihan o Edward Luttwak, per i quali la potenza si fonda necessariamente su solide basi materiali. 

  Fabbri, invece, insiste sul ruolo dei simboli e della volontà politica. Senza una strategia esistenziale, le collettività si fermano, cedono all’immobilismo e alla decadenza. In definitiva, Geopolitica Umana è un libro che affascina per le sue intuizioni, ma che non regge alla prova del rigore scientifico. Fabbri offre una chiave di lettura del mondo che è più suggestiva che dimostrata, più narrativa che analitica. È un’opera adatta a chi cerca un primo approccio alla geopolitica, ma rischiosa per chi si accontenta di spiegazioni facili. La realtà, purtroppo o per fortuna, è più complessa di quanto Fabbri ci racconta. Ma in un panorama dove la geopolitica è spesso ridotta a slogan e banalità, il suo lavoro ha il merito di riportare al centro il peso della storia, della geografia e, soprattutto, dell’uomo.