Dopo la riforma Fornero, il quadro rimase instabile. Nel 2019 il governo introdusse “Quota 100”, che permetteva di uscire dal lavoro a 62 anni con almeno 38 anni di contributi. Era una mossa che dava flessibilità, ma rischiava di far crescere la spesa pensionistica più del previsto. La misura non durò a lungo: al suo scadere fu sostituita da “Quota 102” e poi da “Quota 103”, ogni volta più restrittive e meno attraenti, fino ad arrivare a una situazione in cui pochi decidevano davvero di ritirarsi anticipatamente, viste le penalizzazioni. Lo Stato, con l’acqua alla gola, non poteva permettersi di concedere troppe uscite facili.
A complicare ulteriormente le cose, ci si è messa la pandemia da Covid-19 nel 2020. Il Prodotto Interno Lordo italiano è crollato di circa il 9%, e grandi risorse pubbliche sono state impiegate per evitare un tracollo dell’economia. Questo scenario, con una popolazione sempre più anziana e una crescita debole, ha aggravato il problema. Già oggi, secondo l’Inps, oltre il 60% dei pensionati prende meno di 750 euro netti al mese. Questa cifra, in molte regioni del nord, è sotto la soglia di povertà assoluta, e anche nel resto d’Italia non basta per vivere dignitosamente.
Il problema di fondo è demografico: in Italia ci sono troppi anziani rispetto ai giovani lavoratori.
Decenni fa, un gran numero di giovani con buoni stipendi contribuiva a pagare le pensioni a un numero limitato di anziani. Oggi, i giovani sono molti di meno, e le pensioni gravano su spalle più esili. Alzare le tasse sui lavoratori significherebbe frenare ancora di più l’economia e le assunzioni, mentre continuare con assegni pensionistici troppo alti metterebbe in crisi l’intero sistema.
La soluzione più probabile è che le pensioni continuino ad abbassarsi. Secondo le proiezioni, entro il 2032 molti assegni potrebbero essere dimezzati rispetto a oggi, con gli autonomi tra i più penalizzati. Il picco più critico è atteso nel decennio del 2030, quando andranno in pensione tanti nati a metà degli anni Sessanta, periodo di massima natalità. Per un giovane che oggi ha 30-40 anni, la prospettiva è di ricevere una pensione pubblica insufficiente, a meno di integrare con fondi pensione privati o forme di previdenza complementare.
Il fatto è che pochissimi italiani ricorrono a queste soluzioni. C’è diffidenza verso gli investimenti privati e spesso un reddito già basso non facilita mettere da parte soldi per il futuro.
Nel lungo termine, tra il 2040 e il 2060, l’equilibrio tra nascite, morti e forza lavoro potrebbe migliorare, ma per arrivare a quel punto bisognerà attraversare anni difficili. Molti si troveranno con una pensione appena sufficiente a sopravvivere, e il problema non potrà essere risolto dai governi con un colpo di bacchetta magica.
In definitiva, il sistema pensionistico italiano soffre di squilibri demografici e di una transizione troppo lenta dal metodo retributivo a quello contributivo. Le riforme hanno provato a mettere una pezza qua e là, ma le basi restano fragili. Per evitare una vecchiaia in povertà, molti dovranno pensare a forme di previdenza integrativa. Altrimenti, il rischio è quello di ritrovarsi, nei prossimi decenni, con un intero sistema che non riesce a garantire pensioni dignitose. L’evoluzione della situazione demografica ed economica deciderà il futuro delle pensioni, e per ora le previsioni non sono rosee.