Lavoreremo fino a 90 anni? La crisi del sistema pensionistico italiano – Parte 2

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  Nonostante fosse chiaro che servivano interventi più drastici per rendere il sistema sostenibile, i governi temevano la reazione dell’opinione pubblica. Introdurre regole più severe o pensioni meno generose era doloroso e dunque poco popolare. Nessun partito si mosse per tempo, lasciando che la situazione peggiorasse molto prima del previsto. Dopo la riforma Dini del 1995, per oltre vent’anni i nuovi pensionati continuarono ad avere calcoli in buona parte basati sul retributivo. In un primo momento, nel decennio successivo alla riforma, le cose non andarono malissimo. La natalità e la mortalità si bilanciavano, la crescita economica pareva possibile e l’avvento dell’Unione Europea offriva vantaggi sul fronte delle esportazioni e dell’accesso a materie prime e componenti, riducendo i costi per molte imprese italiane. Sembrava che, con il tempo, il passaggio al contributivo potesse svolgersi gradualmente, senza creare traumi. Tutto ciò, però, dipendeva da due condizioni: una dinamica demografica stabile e un Pil in crescita. Nel 2007 questi due obiettivi parevano realistici, e se la situazione fosse rimasta favorevole, la riforma Dini avrebbe potuto funzionare. Ma proprio allora arrivò il cataclisma. 

  Dal 2007 prese forma la crisi economica globale del 2008, che colpì duramente anche l’Italia. Le prospettive di crescita svanirono, il Pil nel 2008 scese dell’1% e nel 2009 crollò del 5,3%. Nel frattempo, la situazione demografica peggiorava: dal 2007 le nascite scesero sotto le morti, anche perché l’incertezza economica spingeva a rimandare la formazione di famiglie numerose. Il deterioramento del sistema pensionistico accelerò. La prima vera risposta arrivò con la riforma Sacconi del 2009 (in vigore dal 2010, durante l’ultimo governo Berlusconi), che innalzò l’età pensionabile dai 57 ai 65 anni. La novità principale era che l’età pensionabile avrebbe dovuto essere ricalcolata ogni tre anni per tener conto dell’aspettativa di vita e della demografia. Fino ad allora si poteva andare in pensione molto prima, e questa stretta era già considerata dura. Tuttavia, rimanevano molte eccezioni e percorsi di uscita anticipata, dette “pensioni di anzianità”. La Sacconi non bastò a mettere il sistema al sicuro. Nel 2011 scoppiò la crisi dei debiti sovrani europei, e l’Italia si trovò sull’orlo del baratro. Il debito pubblico schizzò verso livelli preoccupanti, mentre si temeva perfino un default dello Stato. Senza un’economia solida e una natalità sostenuta, il sistema pensionistico era in bilico. Nell’autunno 2011 si insediò il governo tecnico di Mario Monti, che mise la questione delle pensioni tra le priorità assolute. L’obiettivo era ridurre immediatamente i costi, evitando che le pensioni diventassero in futuro così basse da sfiorare la miseria. Nel 2012 arrivò la riforma Fornero, dal nome della ministra del Lavoro Elsa Fornero. 

  Questa riforma stabilì che l’età pensionabile sarebbe stata aggiornata ogni due anni invece che ogni tre, rendendo il sistema ancora più rigoroso. Ancor più importante, venne applicato a tutti il metodo contributivo, eliminando gradualmente le residue tracce del retributivo. Questo comportò una riduzione delle pensioni, ma serviva a prevenire tagli più drastici in futuro. Inoltre, la riforma rese più difficile l’uscita anticipata dal lavoro, limitando molto le vecchie pensioni di anzianità. La riforma Fornero era dura e impopolare, ma poteva offrire al Paese un futuro meno incerto. Tuttavia, negli anni successivi, vari governi cercarono di renderla più morbida, introducendo nuovi strumenti per andare in pensione prima, come l’Ape sociale nel 2016. Pian piano si allentarono nuovamente i vincoli, alimentando il rischio di una nuova insostenibilità. L’equilibrio restava precario, ma sarebbe bastato poco per riportare il sistema verso il collasso.