C’è stato un momento in cui la sinistra rappresentava un faro per chi si sentiva oppresso, escluso, dimenticato. Le sue radici erano piantate nel terreno fertile del lavoro, della lotta sociale, della rivendicazione di diritti universali. Ma da quegli ideali si è progressivamente distaccata, abbracciando, con sorprendente entusiasmo, un modello economico che con quei valori aveva ben poco a che fare: il liberismo.
La sinistra non si è adattata ai tempi moderni, come molti sostengono; ha semplicemente scelto di cambiare schieramento.
Il risultato? Un’erosione lenta ma inesorabile del suo elettorato storico e la crescita di una distanza incolmabile tra le sue élite e le masse. Questo tradimento, se così vogliamo chiamarlo, non ha solo lasciato orfane intere generazioni di lavoratori; ha aperto un’autostrada al populismo.
Per comprendere questo cambiamento bisogna tornare agli anni ’90, quando la sinistra europea e mondiale, sotto l’egida di leader come Tony Blair, Bill Clinton e Gerhard Schröder, decise di abbracciare il mercato globale come strumento di progresso. In Italia, l’emblema di questa trasformazione è stato Romano Prodi, il tecnocrate per eccellenza, seguito da altri leader come Matteo Renzi, che hanno sposato senza remore il linguaggio e le logiche dell’economia neoliberista.
L’idea di fondo era che il mercato, opportunamente regolato, avrebbe garantito benessere per tutti. Ma i fatti hanno raccontato una storia diversa. La globalizzazione ha creato vincitori e vinti, e i vinti, per la maggior parte, erano proprio quei lavoratori che la sinistra avrebbe dovuto difendere. Mentre i redditi delle élite crescevano, le fabbriche chiudevano, le periferie si svuotavano e le aree rurali scivolavano sempre più nell’irrilevanza.
La sinistra, invece di ascoltare queste voci, ha continuato a inseguire il consenso della classe media urbana e delle élite intellettuali, abbracciando tematiche progressiste su diritti civili, ambiente e cultura, ma lasciando fuori il tema cruciale della redistribuzione economica.
Un altro elemento che ha contribuito al crollo della sinistra è il suo linguaggio. Con il tempo, i leader di sinistra hanno abbandonato il linguaggio semplice e diretto che aveva caratterizzato figure come Enrico Berlinguer o Sandro Pertini, per adottare una retorica tecnocratica, piena di termini economici e riferimenti astratti. Questo linguaggio, lontano dalla quotidianità delle persone comuni, ha contribuito a creare una percezione di distanza e arroganza.
“Non capite perché è troppo complesso per voi” è il messaggio implicito che molte persone hanno percepito. Il populismo, invece, ha saputo rispondere con un linguaggio diretto, emotivo, che non solo spiegava i problemi, ma indicava anche colpevoli chiari: le élite, i burocrati di Bruxelles, gli immigrati. La sinistra, incapace di controbattere, si è rifugiata in una posizione di superiorità morale, che ha ulteriormente alienato il suo elettorato.
La globalizzazione ha creato una nuova geografia del potere. Le città, centri di innovazione e di flussi economici, sono diventate i fulcri dello sviluppo, mentre le periferie e le aree rurali sono rimaste indietro. Questo cambiamento ha avuto un impatto devastante sul consenso della sinistra.
Un tempo radicata nelle fabbriche e nei piccoli centri, la sinistra ha spostato la sua attenzione verso i centri urbani, inseguendo i voti di studenti, professionisti e imprenditori digitali. Questo ha lasciato scoperti interi territori, dove la destra populista ha saputo costruire un nuovo consenso, parlando di sicurezza, identità e protezione economica.
In Italia, la Lega di Matteo Salvini ha capitalizzato questo abbandono, trasformandosi da partito regionale a movimento nazionale, con una retorica che parlava direttamente a chi si sentiva escluso dalla modernità. La sinistra, nel frattempo, sembrava incapace di capire cosa stesse accadendo.
Un altro elemento interessante è il rapporto della sinistra con il populismo.
Invece di comprenderlo e rispondere alle sue domande, la sinistra ha scelto di demonizzarlo. Ogni protesta, ogni richiesta di attenzione è stata bollata come “populismo” o “antiscientifica”. Questo atteggiamento ha rafforzato l’idea che la sinistra sia distante e arrogante, incapace di ascoltare il disagio reale delle persone.
Ma il populismo non è solo rabbia o irrazionalità. È una richiesta di attenzione, un grido di aiuto da parte di chi si sente abbandonato. Ignorarlo significa non capire le radici profonde della crisi che stiamo vivendo.
La sinistra può ancora recuperare il suo ruolo? Per farlo, dovrebbe abbandonare la retorica tecnocratica e tornare a parlare il linguaggio delle persone. Dovrebbe riscoprire i valori della redistribuzione economica e dell’equità, e affrontare con coraggio le contraddizioni della globalizzazione. Ma il tempo stringe. Fino a quando la sinistra continuerà a ignorare le domande poste dal populismo, questo continuerà a crescere, riempiendo quel vuoto che la politica tradizionale ha lasciato.
Nel prossimo articolo, analizzeremo il linguaggio dei populismi, scoprendo come siano riusciti a costruire un legame diretto e potente con il loro elettorato, bypassando le logiche tradizionali della politica.