La deriva woke e le urne: il trionfo dell’inconsistenza che alimenta i populismi

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  Leggendo le cronache di questi giorni, ci si imbatte in due realtà apparentemente distanti ma drammaticamente connesse. Da una parte, la decisione di una pugile di Taiwan di ritirarsi da un torneo internazionale perché un’organizzazione, ciecamente succube di un’agenda woke fuori controllo, non era certa della sua identità femminile. Dall’altra, le invettive al vetriolo di Ilaria Salis, eurodeputata di estrema sinistra, che accusa la nuova Commissione Europea di essere “autoritaria, nazionalista e antipopolare”. 

  Due esempi di un pensiero che si crogiola nell'ideologia fine a sé stessa, completamente disconnesso dalla realtà della gente comune. In che mondo vive chi ritiene prioritario disquisire sull'identità di genere di una pugile o attaccare in modo apocalittico una Commissione Europea appena eletta? Un mondo chiuso in sé stesso, fatto di slogan e battaglie simboliche che non toccano minimamente i problemi reali di milioni di persone. È normale, poi, che i populismi si nutrano di questa debolezza. Anzi, ne traggano forza, offrendosi come un rifugio, imperfetto ma concreto, per chi è stanco di essere deriso o ignorato. 

  Il caso della pugile Lin Yu-Ting è emblematico. Una professionista costretta a ritirarsi perché un’organizzazione non era “certa” della sua femminilità. Una vicenda che sfiora il grottesco e dimostra come l’estremismo delle ideologie woke stia trascinando interi settori sociali in una spirale di assurdità. Questa ossessione per i dettagli politically correct aliena chi, fuori dalle bolle progressiste, ha problemi ben più tangibili: lavoro precario, costo della vita alle stelle, crisi energetiche. In questa cornice, il paradosso è evidente: mentre l'élite progressista si balocca con le etichette, il cittadino medio si sente abbandonato. 

  E così cresce il rancore, che trova sfogo nei populismi, pronti a incarnare un senso di rivalsa, pur con tutti i loro limiti e contraddizioni. Poi c'è Ilaria Salis e la sua propaganda di sinistra estrema. Attacchi a Ursula von der Leyen, definizioni roboanti come "governo guerrafondaio e anti-ecologico", e quel solito refrain sull’opposizione “fuori dal Parlamento”. Una retorica fossilizzata su una visione del mondo che non esiste più, in cui il capitalismo è il male assoluto e le masse sono pronte a insorgere sotto la guida dei nuovi profeti della rivoluzione. 

  Peccato che il popolo, quello vero, abbia voltato le spalle a questi sacerdoti del nulla. Non perché abbia scelto il populismo per convinzione, ma perché ne ha abbastanza di un linguaggio fatto di accuse sterili e promesse vuote. La sinistra estrema, con le sue derive radicali, sta diventando il migliore sponsor di leader come Trump, Meloni o Le Pen. Più attaccano, più rafforzano. Non ci vuole un genio per capire che il progressismo, se vuole sopravvivere, deve tornare a parlare alle persone e dei loro problemi. Basta ideologie astratte, basta sciocca propaganda woke. Serve pragmatismo, concretezza e, soprattutto, umiltà. Fino ad allora, però, è inutile sorprendersi se vincono i populismi: sono l’effetto collaterale, prevedibile e inevitabile, di chi ha perso il contatto con la realtà.