Viviamo in un'epoca in cui l'esistenza sembra non avere senso senza la sua costante proiezione all'esterno. Siamo immersi in un tempo in cui non è più sufficiente essere; è necessario mostrarsi, far sapere al mondo che ci siamo e che, anzi, ci siamo con tutta la nostra efficienza e produttività, come se la nostra presenza avesse valore solo quando è osservata, giudicata, e – soprattutto – invidiata dagli altri. Ma cosa rimane di noi, quando smettiamo di esibire la nostra vita, quando le luci dello spettacolo si spengono e nessuno ci guarda più?
L'urgenza di far sapere a tutti cosa stiamo facendo, con chi siamo, e come lo stiamo facendo, sembra ormai essere il motore principale delle nostre giornate. La passeggiata al parco, la pizza con gli amici, la vacanza al mare: nulla ha più valore se non è trasformato in un evento da condividere, in una narrazione visiva da postare sui social. È come se avessimo dimenticato il piacere intrinseco delle cose, sostituendolo con la soddisfazione superficiale del "mi piace" altrui.
E così, ci ritroviamo a recitare una parte, a vivere in un perpetuo reality show dove l'audience è tutto, ma la sostanza è niente.
La competizione dell'apparire, come giustamente osserva Paolo Lanza, non si limita a mettere in scena la nostra efficienza, ma ci spinge a una spettacolarizzazione continua, dove ogni gesto quotidiano deve essere pubblicizzato come fosse un grande evento. E in questo gioco al rialzo, dove tutti devono sempre mostrarsi migliori, più felici, più realizzati, rischiamo di perdere di vista ciò che conta veramente: la possibilità di esistere, di essere autentici, di vivere momenti privati che non hanno bisogno di un pubblico.
Questa dinamica, alimentata dai social media, ci illude che la visibilità equivalga a esistenza. Ma essere costantemente sotto i riflettori non significa vivere davvero; significa solo interpretare un ruolo. E più ci sforziamo di apparire, più ci allontaniamo dalla nostra vera essenza, diventando prigionieri dell'immagine che vogliamo proiettare, piuttosto che della persona che siamo veramente.
Il paradosso dei nostri tempi è che, nella corsa per affermarci attraverso l'apparenza, finiamo per alienarci dalla realtà. Accettiamo di partecipare a questo gioco di specchi, di recitare il copione della prestazione continua, ma a che prezzo? Forse, quello più alto: la nostra autenticità, la nostra capacità di provare emozioni genuine, di vivere esperienze per il loro valore intrinseco, senza la necessità di condividerle o di renderle spettacolo.
È necessario un momento di riflessione. Forse, dovremmo cominciare a chiedere a noi stessi se questa smania di visibilità ci rende davvero felici, o se ci sta semplicemente consumando. Forse, è tempo di ritrovare il coraggio di essere invisibili, di vivere senza l'obbligo di apparire. Di esistere per noi stessi, e non per gli altri. Perché, in fondo, esistere davvero significa proprio questo: vivere al di là dello sguardo altrui, trovare il senso della propria vita non nella prestazione, ma nella semplicità dell'essere.