In Italia, si sa, ogni questione diventa terreno di scontro ideologico, e il dibattito sull'iperandrogenismo nello sport non fa eccezione. Tra destra e sinistra, il confronto è uno spettacolo grottesco, una farsa dove il buon senso è il grande assente. Da un lato, abbiamo la destra che, con la sua consueta delicatezza, spara a zero contro atlete come Iman e la taiwanese delle Olimpiadi di Parigi, riducendole a semplici caricature: "Non sono vere donne, sono uomini travestiti!". Dall'altro, la sinistra che, invece di affrontare il problema, preferisce sviare l'attenzione su questioni di comodo, attaccando atlete come Carini, tacciandola di scarso impegno per i suoi ritiri passati.
Ma facciamo un passo indietro e analizziamo questa pantomima. La destra, con la sua visione riduttiva e binaria del mondo, sembra incapace di accettare la complessità della natura umana. Per loro, la femminilità è una casella da spuntare: hai il testosterone sopra una certa soglia? Allora non sei più donna, punto e basta. E così, atlete come Iman diventano il bersaglio di una retorica che le disumanizza, negando la loro identità e il loro diritto di competere. È un approccio che ignora la realtà biologica e sociale, un tentativo maldestro di semplificare un tema che, invece, richiede sensibilità e comprensione.
Dall'altra parte del ring, la sinistra non fa di meglio. Invece di difendere i diritti di queste atlete con argomentazioni solide, preferisce glissare sul tema principale, concentrandosi su questioni marginali. Così, la polemica si sposta su Carini, colpevole, secondo loro, di avere un "vizio" del ritiro. Il problema dell'iperandrogenismo? Un dettaglio scomodo che è meglio non affrontare, per non perdere punti nei salotti buoni del politically correct. Ma è davvero questo il modo di difendere l'inclusione e l'equità nello sport?
Entrambi gli schieramenti sembrano più interessati a proteggere le loro posizioni ideologiche che a trovare soluzioni reali.
La destra, con la sua ossessione per i confini rigidi tra i generi, si mostra incapace di accettare che la natura non sempre si conforma ai loro schemi mentali. La sinistra, con la sua paura di offendere, finisce per nascondere la polvere sotto il tappeto, evitando di confrontarsi con la complessità del problema.
E mentre loro si scambiano battute, le atlete iperandrogine restano intrappolate in una zona grigia, vittime di regolamenti ambigui e di un dibattito pubblico che le riduce a oggetti di polemica.
La loro realtà, fatta di sacrifici, allenamenti estenuanti e sogni olimpici, viene oscurata da un teatrino politico che non offre soluzioni, ma solo slogan vuoti.
C'è qualcosa di profondamente patetico in questo balletto delle ideologie. Da una parte, la destra che si accanisce su donne che non corrispondono ai loro standard, dimenticando che lo sport è prima di tutto inclusione e rispetto. Dall'altra, una sinistra che si riempie la bocca di parole come "diritti" e "uguaglianza", ma che poi si perde in attacchi personali e non ha il coraggio di affrontare il cuore del problema.
In tutto questo, a pagare sono le atlete, costrette a navigare in un mare di pregiudizi e ipocrisie.
Il dibattito sull'iperandrogenismo dovrebbe essere un'occasione per riflettere su cosa significhi davvero equità nello sport, su come bilanciare i diritti individuali con le esigenze della competizione. Invece, è diventato l'ennesimo campo di battaglia di una guerra ideologica che non ha nulla a che vedere con lo sport.
Forse, è arrivato il momento di smettere di urlare e di cominciare ad ascoltare. Di guardare queste atlete per ciò che sono: donne straordinarie che lottano per i loro sogni, nonostante tutto. E di trovare, finalmente, una soluzione che rispetti la loro umanità e la loro dignità, senza ridurle a semplici pedine di un gioco politico che fa acqua da tutte le parti.