L'Italia tra mito e realtà, capitolo 11: Le prime sfide della Repubblica - Patrizi e plebei al tiro alla fune

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  La Repubblica Romana era appena nata, ma già cominciava a dare i primi segni di crisi adolescenziale. Mentre i consoli si davano pacche sulle spalle, convinti di aver trovato la formula magica per governare Roma senza un re, la realtà si stava preparando a dar loro una bella lezione: il vero nemico non era solo all'esterno delle mura, ma anche all'interno, tra chi quelle mura le abitava e le faceva vivere. 

  I patrizi, l’élite romana, quelli con i cognomi che contavano – e non solo quelli – avevano subito capito l’antifona: meglio tenere il potere in poche mani, e le loro, se possibile. E così, con la fine della monarchia, si erano rimboccati le maniche (non troppo, per non sgualcire la tunica) e avevano cominciato a sistemare le cose a loro favore. Ma c’era un problema: la plebe. Sì, quei plebei, contadini, artigiani e commercianti, che con la monarchia avevano già abbastanza difficoltà, ora si ritrovavano in un gioco di potere in cui erano destinati a perdere sempre. E così, non c’è da stupirsi se la tensione sociale cominciò a salire, come il livello del Tevere dopo una piena. 

  I plebei, oppressi dai debiti e vessati da una giustizia che sembrava fatta su misura per i patrizi, decisero che era ora di far sentire la loro voce. E come? Con una bella secessione. Nel 494 a.C., abbandonarono Roma e si ritirarono sul Monte Sacro, lasciando la città senza la sua manodopera e il suo esercito. Insomma, un’astuzia degna di un sindacato moderno: niente lavoro, niente difesa, vediamo come ve la cavate. I patrizi, abituati a comandare, si trovarono improvvisamente con le spalle al muro. Senza plebei, Roma rischiava di sprofondare. E così, nacque un compromesso, o meglio, i patrizi furono costretti a concedere un pezzo della torta, e lo fecero con la creazione del Tribuno della Plebe, una figura che aveva il potere di dire "no" alle decisioni del Senato e dei consoli. Un veto di tutto rispetto, che serviva a ricordare ai patrizi che non potevano fare proprio tutto quello che volevano. 

  Ma pensate che la storia finisse qui? Neanche per sogno. La lotta tra patrizi e plebei era solo agli inizi. I plebei, una volta assaggiato il potere, e in fondo entrati a farne parte nella cosiddetta nobilitas patrizio-plebea, non si accontentarono di un solo tribuno, e col tempo riuscirono a ottenere che il numero dei tribuni fosse aumentato, e che avessero anche il potere di convocare l’assemblea della plebe, una specie di parlamento dove potevano legiferare per conto proprio. 

  E mentre a Roma si giocava a questo tiro alla fune sociale, ricordiamolo, le minacce esterne non si facevano certo attendere. I Tarquini, dal loro esilio dorato, non avevano certo rinunciato all’idea di tornare sul trono. E per farlo, si allearono con gli etruschi, che di tornare a comandare su Roma avevano una gran voglia. La giovane Repubblica, ancora in fasce, dovette affrontare una battaglia epica, quella del Lago Regillo, dove le leggende raccontano che Castore e Polluce, i Dioscuri, si presentarono a dare una mano ai romani, vincendo una delle battaglie più dure della loro storia. La vittoria fu dolce, ma il retrogusto amaro restava. Le tensioni sociali non sparirono, anzi, continuarono a crescere. E fu proprio in risposta a queste crisi interne che nacquero le Dodici Tavole, il primo codice scritto della Repubblica Romana. Finalmente, i plebei avevano qualcosa di concreto a cui aggrapparsi: leggi scritte, non più interpretazioni arbitrarie. Non che queste leggi fossero perfette – anzi, avevano parecchi difetti – ma almeno rappresentavano un passo avanti. Così, Roma andava avanti a colpi di crisi e compromessi. 

  La sua forza non stava tanto nell’evitare i conflitti, quanto nel gestirli. La Repubblica Romana, pur tra mille difficoltà, mostrava di sapersi adattare, di sapere quando era il momento di tirare e quando quello di mollare la corda. Questo equilibrio precario, fatto di lotte e mediazioni, avrebbe permesso a Roma di crescere, di evolvere e, alla fine, di dominare il Mediterraneo. Insomma, la Repubblica era giovane, un po’ confusa, ma determinata. Il sistema non era perfetto, ma come ogni buon romano avrebbe detto, "meglio imperfetto che tirannico". E così, tra un compromesso e l’altro, Roma cominciava a capire che il potere non poteva più essere concentrato in poche mani, ma doveva essere distribuito, magari con qualche tiratina d’orecchie ogni tanto, per ricordare a tutti chi davvero teneva in piedi la città.