Nel caldo soffocante dell’estate del ’68, tra i campi di Signa, due amanti trovano la morte: sono Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, la prima ombra del Mostro di Firenze. La loro esecuzione sarà solo la prima di una lunghissima scia di sangue.
La prima ombra del Mostro di Firenze: Barbara Locci, la donna che pagò a caro prezzo il desiderio
È una normale notte di agosto del 1968. Nelle campagne, solo silenzio. In un’auto parcheggiata nei pressi del cimitero di Signa, due amanti si lasciano andare a delle effusioni. Sono Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, appena stati al cinema e ora in cerca di un pochino di intimità. La radio è muta, il cielo è cupo, sembra quasi incombere sui due. Sul sedile posteriore dorme placido il figlio di lei, il piccolo Natalino. Loro di certo non possono saperlo, ma questa notte sarà ricordata come l’inizio di uno dei capitoli più sanguinosi del crimine italiano.
Nella quiete, otto spari. Per Barbara e Antonio nulla da fare: quei sussurri dolci sono stati spenti per sempre.
Ma chi era Barbara Locci e come era connesso questo caso con la leggenda nera del Mostro di Firenze?
La chiamavano Ape Regina, per via dei tanti amanti che le gravitavano attorno, e in tanti quando accadde la tragedia non storsero il naso più di tanto, ma Barbara Locci altro non era che una donna carismatica e sensuale in un’epoca dove tutte queste qualità erano viste negativamente a prescindere. Mamma, moglie e amante: tante facce ma nessuna che la rispecchiasse per davvero, che mostrasse quello che Barbara era… una donna libera, sposata a un uomo fragile, che voleva vivere la sua sessualità appieno. Senza freni. In un contesto, quello in cui viveva, dove si parlava troppo, dove si giudicava; eppure lei di quei giudizi non si curava più di tanto. E quello che le accadde la notte tra il 21 e il 22 agosto del 1968 rimase nei ricordi e nei fascicoli degli inquirenti, che solo dopo anni videro una connessione importante.
Ma facciamo un passo indietro.
Barbara Locci nasce nel 1936 in provincia di Cagliari, poi con genitori e fratelli si trasferisce in Toscana. A Scandicci conosce Stefano Mele, un manovale (anch’esso sardo e trasferito lì successivamente) di vent’anni quasi più vecchio di lei. Non si capisce se il matrimonio sia deciso dalle famiglie o da loro, sta di fatto che nel 59 i due convolano a nozze… nozze che non sono felici e serene sin da subito. Nel 61, nasce Natalino (il cui DNA dimostrerà poi, molti anni dopo, la paternità di un altro uomo, non Mele).
Barbara e Stefano, uomo di indole fragile e ossessiva, ospitano a casa loro i fratelli Vinci, Giovanni, Salvatore e Francesco, e con tutti e tre pare che la donna intessa delle relazioni extraconiugali. Ma non solo: Barbara, donna estremamente sensuale, ha anche altri amanti (soprattutto, questo non va a genio a Francesco, che per lei ha una ossessione tutta particolare).
Non se ne cura, lei, così come non si cura delle voci di paese: il posto dove vive, in via XXIV Maggio a Lastra di Signa, è chiuso e in tanti la guardano da dietro le tende. Gli uomini la desiderano, le donne la odiano. È bella e attorno a sé c’è sempre qualcuno pronto a prenderla a braccetto.
Quando una calibro 22 spara all’interno della Giulietta bianca dove era con Lo Bianco, uccidendo entrambi, va da sé che i sospetti si concentrino sul marito, che peraltro aveva sempre mostrato accettazione verso la vita della moglie.
Del resto, Mele confessa, seppur in maniera lacunosa e confusa. Per prima cosa, non aveva un mezzo di locomozione, poi non sembra nemmeno così abile a sparare. La pistola? Non si trova.
Comunque, viene condannato a 13 anni di galera, che sconta, e a ulteriori due per calunnia verso i fratelli Vinci. Sì, perché a un certo punto, quando la stessa tipologia d’arma (una Beretta calibro 22 con proiettili Winchester serie H) del delitto (pistola mai ritrovata) viene associata ai crimini del Mostro di Firenze, ritratta tutto. La colpa, dice, è di Francesco Vinci, è lui che mi ha portato lì e ha sparato. Fatto, questo, mai verificato. Che poi, alla fine, chiede persino perdono a Vinci – ma tant’è.
Mele trascorre l’ultima parte della sua vita in una struttura per ex detenuti a Ronco D’Adige. A partire dal 1982, anno in cui viene fatto il collegamento con la pistola sopranominato, verrà sentito spesso dagli inquirenti ma il suo apporto non porterà mai a nulla di decisivo. Morirà nel 1995, senza aver dato contributi concreti: questa vicenda, quella della Locci e di Lo Bianco, risulterà sempre connessa ai crimini sanguinosi del Mostro… ma senza risoluzione. Con un’ombra di tenebra ad avvolgerla.