Dal Financial Times arriva un invito che, nel suo tono, suona quasi come un comando velato: visitare la Sardegna in autunno. Non l'estate, dice il giornale britannico, ma i mesi "di spalla", quando il mare è "ancora caldo" e le spiagge sono libere dai superyacht che scivolano come padroni lungo le coste nei mesi di alta stagione.
Un elogio alla Sardegna, certo, ma che appare intriso di quella condiscendenza tipica di chi guarda da lontano, senza coglierne l’essenza. "Scoprite la sua civiltà fenicia e romana," scrive il Financial Times, "i templi, gli anfiteatri, le necropoli e i misteriosi villaggi fortificati nuragici del II millennio a.C." Belle parole, ma che sembrano ridurre la nostra storia millenaria a una semplice lista di attrazioni.
E poi c’è l’invito a farsi guidare da Rupert Smith, un classicista britannico, a esplorare "luoghi appartati" e a gustare i "superbi ristoranti (non stellati)." Modesti gli hotel, si precisa, quasi a voler sottolineare un’eccentricità che, agli occhi stranieri, diventa un valore aggiunto.
La Sardegna non è una cartolina per compiacere il turismo straniero. Non è un’isola che si concede al primo elogio di un quotidiano d’oltremanica. La nostra terra è fatta di storie, di comunità, di tradizioni che non possono essere ridotte a "murales" o a esperienze da provare sotto l’ala di un cicerone d’importazione.
Siamo lieti che il mondo scopra le meraviglie della Sardegna. Ma ci permettiamo di ricordare, a chi osserva con occhi esterni, che questa terra non è solo un rifugio stagionale, un’alternativa per chi cerca una pausa lontano dal caos. È casa nostra. È memoria, è identità, è un cuore che batte al ritmo delle onde, delle montagne e dei paesi dell’entroterra.
Grazie per l’invito, Financial Times. Ma ci permettiamo di rispondere: la Sardegna non si scopre, si vive. E per viverla davvero, non servono "modesti hotel" o "superbi ristoranti." Serve rispetto.
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