Taiwan non è emersa all’improvviso come questione cruciale solo di recente, né la sua importanza discende soltanto dai semiconduttori, benché oggi questa narrazione economico-tecnologica vada per la maggiore. Taiwan è da sempre uno snodo strategico-ideologico, un nodo geografico, molto prima che fosse perfino immaginabile l’avvento dei chip. Non si spiega la centralità di quest’isola se non comprendendo la grande storia del Novecento, con le sfide globali tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina, e il loro gioco di contrappesi che, di fatto, ha conferito a Taiwan un rilievo decisivo ben prima che l’elettronica avanzata ne facesse un gigante della microtecnologia.
La questione di Taiwan nasce come “affare” strategico già quando gli Stati Uniti cercavano di interpretare il complesso rapporto tra Cina e Unione Sovietica, immaginando inizialmente che le due grandi potenze comuniste — sovietici e cinesi, allora considerati amici — fossero una salda alleanza. Questa prospettiva si rivelò falsa nel 1969, quando Unione Sovietica e Cina si scontrarono frontalmente su due fiumi di confine, l’Ussuri e l’Amur, in un conflitto che oggi quasi non si studia più ma che fu un punto di svolta monumentale. Era il 1969, in piena Guerra Fredda, e mentre in Occidente si tende a ignorare tali episodi, fu proprio quel conflitto a “far accendere una lampadina” a Washington.
Gli americani, guidati dalle intuizioni di Henry Kissinger — stratega dal talento tattico notevole, cresciuto negli Stati Uniti ma di origine tedesca, con un forte accento bavarese e portatore di una visione quanto mai pragmatica — colsero l’opportunità di sfruttare la frattura tra Mosca e Pechino.
Nel 1971 Kissinger volò a Pechino, all’epoca ancora non riconosciuta formalmente dagli Stati Uniti, che diplomaticamente consideravano la sola Repubblica di Cina (Taiwan) come la “Cina” ufficiale. Kissinger si muove sottotraccia: il notiziario americano dell’epoca lo dava ammalato in Pakistan, mentre in realtà questi si recava a Pechino per avviare un dialogo segreto con Zhou Enlai e la leadership cinese.
Da questa mossa geniale germinò l’idea: separare il nemico più debole — la Cina — da quello più forte — l’Unione Sovietica — per non consentire al blocco comunista di compattarsi. Gli USA vinsero la Guerra Fredda proprio grazie all’apertura cinese, allontanando Pechino da Mosca. Quando nel 1979 l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan, i militari di Mosca si ritrovarono ad affrontare non solo i mujahideen appoggiati dalla CIA, ma anche i cinesi. Fu una sorpresa per i sovietici vedere l’ombra di Pechino in Afghanistan. Così, da allora gli Stati Uniti si rafforzarono, mentre la Cina si slegava dal gigante sovietico. Oggi, invece, il copione si è invertito: la Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina, è divenuta socio di minoranza della Cina, perdendo la propria antica centralità. Siamo in un’altra epoca, in cui Washington, se potesse, ripeterebbe quella divisione tattica, ma al contrario: staccare la Russia dalla Cina. Tuttavia, il conflitto ucraino ha reso Mosca ancora più dipendente da Pechino.
In questo contesto storico, Taiwan si inserisce perché rappresenta un punto nodale nell’espansione potenziale della Cina. L’isola, con i suoi 23 milioni di abitanti, si trova a circa 155 chilometri dalla costa cinese nel suo punto più stretto, il cosiddetto Stretto di Formosa, nome datole dai portoghesi. Ma Taiwan non è soltanto un frammento di terra: ha anche degli isolotti come Kinmen, a meno di 10 chilometri dalla costa continentale della Repubblica Popolare. Durante la Guerra Fredda gli americani chiamavano Kinmen la “Berlino dell’Asia Occidentale” (Asia’s West Berlin), perché tale isolotto, sotto il controllo taiwanese, si trovava praticamente dentro casa cinese, impedendo a Pechino di avere un accesso indisturbato al mare aperto.
Storicamente, la Cina ha sempre avuto un pessimo rapporto col mare, come notavano filosofi tedeschi del passato (Hegel, ad esempio, pur con pregiudizi tipicamente eurocentrici) e come si vede dalla storia coloniale di Taiwan, dove all’inizio i cinesi non c’erano. Furono gli europei, portoghesi, spagnoli, olandesi ad arrivarvi per primi. Poi giunsero coloni cinesi, ma invitati dagli stessi olandesi. Taiwan ha conosciuto anche l’occupazione giapponese, che l’ha resa una colonia del Sol Levante fino alla Seconda guerra mondiale.
La pianta urbana di Taipei è ancora oggi profondamente segnata dall’assetto giapponese. I cinesi, dunque, non sono i nativi di Taiwan, bensì anch’essi coloni, così come lo furono i giapponesi. L’isola è da sempre un crocevia di colonizzazioni.
Ecco che torna in ballo la centralità di Taiwan come questione strategica: a Pechino serve riprendere Taiwan per evitare di avere l’America “in casa”. Con Taiwan, gli Stati Uniti possono controllare l’accesso cinese al Pacifico; senza riconquistare quest’isola, i cinesi non potranno mai spingersi oltre e diventare la superpotenza che molti in Occidente, ragionando in termini puramente quantitativi (1,4 miliardi di cinesi, crescita economica, ecc.), credono inevitabile. Nel 2049, centenario della rivoluzione comunista, il Partito Comunista Cinese ha stabilito di ricongiungere Taiwan alla madrepatria: se la Cina desidera davvero mostrarsi come la potenza dominante del futuro, non può lasciare che 23 milioni di “diversamente cinesi” restino indipendenti a pochi chilometri dalle sue coste, protetti dalla marina americana.
Questa è la vera essenza dell’importanza di Taiwan: una questione geografico-strategica, di prestigio e proiezione di potenza. Non servono i semiconduttori per spiegarne la centralità. Già negli anni Cinquanta e Novanta del secolo scorso gli Stati Uniti e la Cina si sfidarono intorno a Taiwan. Quanti chip produceva allora l’isola? Zero. Non sono i chip a fare di Taiwan un casus belli, bensì il ruolo geopolitico di un lembo di terra che impedisce alla Repubblica Popolare di spiccare il volo verso il Pacifico, e quindi verso il mondo.