A Mulinu Becciu, quartiere popolare di Cagliari, un circolo abusivo mascherato da esercizio commerciale si è rivelato essere un punto di riferimento per lo spaccio di droga. Un cagliaritano di 43 anni, già noto alle forze dell’ordine, è stato arrestato dopo un’operazione della Squadra mobile che ha portato al sequestro di cocaina, hashish e materiale per il confezionamento. Ma questa è solo l’ennesima storia, l’ennesima testimonianza di un fenomeno che in Sardegna assume proporzioni sempre più inquietanti.
La cronaca ci racconta un fatto, ma il fatto si inserisce in un quadro più complesso. In che modo un’isola, per sua natura marginale rispetto ai grandi mercati, è diventata terreno fertile per una diffusione così capillare della droga? Le ragioni, come sempre, sono molteplici, ma tutte puntano verso un punto centrale: un’economia parallela che, per molti, rappresenta l’unica strada per sopravvivere o arricchirsi in un contesto dove “lavorare onestamente”, come si suol dire, non sembra pagare.
La Sardegna, con i suoi ritmi lenti e le sue contraddizioni, si presta perfettamente a essere crocevia e mercato. I quartieri popolari come Mulinu Becciu non sono solo scenari di degrado sociale, ma diventano infrastrutture per un’economia del sommerso. Qui, dove la videosorveglianza non serve per proteggersi, ma per avvisare i complici dell’arrivo della polizia, lo spaccio non è un’azione isolata. È parte di un sistema che coinvolge chi produce, chi distribuisce e chi consuma.
E non si tratta solo di piccole dosi. Ogni arresto, ogni sequestro, per quanto significativo, è solo la punta dell’iceberg. Il denaro sequestrato, in questo caso 630 euro, è una briciola rispetto ai flussi reali che attraversano i quartieri, le città, le campagne. Perché questa è la vera forza del sistema: la sua capacità di inserirsi ovunque, dai luoghi di degrado a quelli apparentemente insospettabili.
Ma la vera domanda è un’altra: cosa c’è dietro? Davvero si può liquidare tutto come una conseguenza del disagio economico? Oppure questa diffusione capillare è il risultato di una scelta precisa, di una strategia che vede nella droga non solo un mezzo di sopravvivenza, ma una risorsa economica extra, alternativa ai canali tradizionali?
Perché lavorare onestamente, per molti, non è un’opzione. I salari bassi, le poche opportunità, l’emigrazione forzata: tutto spinge verso un modello dove il rischio è accettabile, se l’alternativa è la povertà. La droga diventa così non solo un problema sociale, ma un problema strutturale. Non si combatte solo arrestando i piccoli spacciatori o sequestrando qualche grammo di cocaina.
Si combatte creando un’alternativa reale, un’economia che renda inutile, se non dannosa, l’esistenza stessa di questa economia parallela.
E poi c’è la posizione geografica dell’isola. La Sardegna è, da sempre, una terra di passaggi: tra l’Africa e l’Europa, tra il Mediterraneo occidentale e le grandi città del continente. Questa posizione la rende ideale per il transito di droga, un passaggio che sfugge a molti ma non a tutti. Non è un caso che l’isola sia diventata crocevia per traffici che, in apparenza, sembrano lontani dalle sue coste.
Ma se questa è la geografia, è il sistema a trasformarla in una condanna. Senza una strategia politica chiara, senza investimenti reali per sottrarre le periferie alla loro condizione attuale, la Sardegna non farà che confermare un ruolo che non ha scelto, ma che le è stato imposto.
Il problema non è solo di Mulinu Becciu, non è solo di Cagliari, non è nemmeno solo della Sardegna. Il problema è nostro, di chi guarda, legge, scuote la testa e poi dimentica. Perché ogni arresto, ogni sequestro, è un sollievo momentaneo, ma il sistema resta intatto. Fino a quando? Fino al prossimo arresto, alla prossima operazione, al prossimo articolo di cronaca. E noi continueremo a chiederci: davvero non possiamo fare di meglio?