Che fosse necessaria una legge regionale sulle aree idonee e non idonee agli impianti da fonti rinnovabili, in Sardegna, era chiaro come il sole che alimenta i pannelli fotovoltaici. E finalmente, dopo un’attesa che manco la processione dei Candelieri, il Consiglio regionale si è deciso ad approvarla, il 4 dicembre 2024, giusto in tempo per evitare l’ennesimo pasticcio normativo nazionale. Di per sé, una buona cosa. Ma come spesso accade nel Belpaese, conquistata la cima della collina ne scopriamo subito un’altra più alta ancora.
Il testo, uscito dalla penna dei legislatori sardi, cerca di mettere ordine nel Far West energetico: aree idonee, aree non idonee, procedure più snelle, regole più chiare. Era ora. E, a scanso di equivoci, il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) – sempre sul pezzo, come la Guardia di Finanza sui conti dei furbetti – riconosce all’impianto normativo una sua logica, una sua coerenza.
Persino i riferimenti alle competenze statutarie e costituzionali strappano un sorriso soddisfatto: per una volta, la Regione si ricorda di avere delle carte in mano e le gioca con un minimo di intelligenza.
Detto questo, non illudiamoci. Siamo lontani dall’aver ridimensionato il fenomeno della speculazione sulle rinnovabili, che in Sardegna (ma non solo) corre come un treno ad alta velocità. L’Isola, notoriamente indipendente nel pensiero e nell’orgoglio, si è trasformata negli ultimi anni in un’enorme vetrina per chiunque voglia piazzare pale eoliche e pannelli solari a piacimento. E non parliamo solo della terraferma, ma pure delle acque territoriali: l’eolico offshore si affaccia minaccioso dalle coste, mentre a terra si rischia di creare un mosaico di pale e pannelli dove una volta crescevano ulivi e vigneti.
La nuova legge regionale tenta di frenare questo supermarket dell’energia senza criterio, mettendo paletti, imponendo fideiussioni, individuando aree non idonee e addirittura prevedendo almeno tre chilometri di rispetto da monumenti naturali, beni culturali e via dicendo. Una mossa sacrosanta, eppure c’è il solito grimaldello infilato in uno degli articoli della legge: la possibilità, per i Comuni, di proporre istanze per impianti in aree non idonee, previo referendum locale e maggioranza qualificata. Tradotto: se c’è l’amministrazione giusta e i cittadini sufficientemente convinti (o confusi?), si può scavallare il divieto. E chissà che questa “deroga alle deroghe” non diventi il nuovo giochino degli speculatori.
Il GrIG fa notare con apprezzabile lucidità come si debba ragionare sui numeri reali. L’obiettivo di oltre 6 GW da installare entro il 2030 dev’essere verificato anno per anno, alla luce dell’effettiva capacità di consumo, stoccaggio e trasporto dell’energia. Altrimenti che si fa, produciamo elettricità per lasciare i cavi in sovraccarico e gonfiare le tasche degli speculatori?
Il vero problema, infatti, non è la transizione energetica in sé: è che questa trasformazione epocale sembra diventata il bancomat di chi, sotto la nobile etichetta delle fonti pulite, vorrebbe trasformare l’Italia in un immenso parco elettrico a cielo aperto. Poco importa se l’energia prodotta eccede i bisogni reali e non può essere trasferita né conservata: tanto, a pagare, siamo noi contribuenti. Il dispacciamento premia comunque chi produce, anche se il consumo è zero. E i soldi, come sempre, escono dalle nostre bollette.
L’assenza di una pianificazione nazionale seria ha generato un Far West che oggi si prova a governare localmente con qualche norma regionale. Ben venga la legge sarda, ma non può bastare. Serve una moratoria nazionale – oggi impossibile per ragioni costituzionali e politiche – o, quantomeno, un intervento statale che stabilisca dove, quando e quanto si può impiantare. L’idea di bandi di gara per siti selezionati in base ai reali fabbisogni energetici sarebbe il minimo sindacale di buon senso. Ma buon senso e pianificazione, in Italia, non sono mai andati granché d’accordo.
Il GrIG ha lanciato una petizione popolare contro la speculazione energetica, superando le 20 mila adesioni. Significa che non tutti si fanno abbindolare dalle parole magiche “transizione” e “green” quando dietro c’è solo affarismo. Ora si tratta di vedere se questa legge regionale rimarrà un pannicello caldo o si trasformerà in uno strumento davvero efficace per mettere un freno alla giungla energetica. Per adesso, la Sardegna muove un primo passo nella giusta direzione. Ma la strada è lunga, irta di pale eoliche e riflettenti pannelli. Chissà se vedremo mai la luce in fondo al tunnel, quella autentica e non un riflesso di furbizie speculatrici.